Presagi interiori: l’extispicio
Affrontare un discorso sulla religione degli Etruschi è compito alquanto complesso, in quanto, come ogni civiltà antica, essa è fulcro per la stabilizzazione di una vita armoniosa all’interno della comunità.
La maggior parte dei momenti fondamentali della vita in società si basava su specifiche ritualità, imposte proprio dalla religione. Essa si caratterizzava per una molteplicità di aspetti che andavano a comporre il quadro dell’ideologia religiosa che fa da sfondo allo sviluppo della civiltà etrusca. Conosciamo poco, nostro malgrado, della cosiddetta disciplina etrusca, ovvero dell’insieme di norme che erano alla base dell’ideologia religiosa degli Etruschi, in quanto mancano attestazioni scritte direttamente riconducibili ad autori etruschi. Le fonti che trattano questi argomenti sono molto più tarde, infatti le prime testimonianze sono presenti in passi di Plinio il Vecchio, Seneca e Cicerone. Tutti e tre gli autori si soffermano su uno degli aspetti fondamentali della religione etrusca, cioè le tecniche divinatorie, volte a scoprire il volere delle divinità. Tra le più sviluppate c’erano l’interpretazione dei fulmini, appositamente normalizzata nei Libri fulgurales, dei quali ci parlano Plinio il Vecchio e soprattutto Seneca, e l’indagine delle viscere delle vittime sacrificali, chiamata appunto extispicium dai Romani (da exta ‘viscere’). Per quanto concerne quest’ultima, sappiamo che non tutte le viscere erano considerate ominales, cioè portatrici di un presagio. Gli organi che erano esaminati dall’aruspice (in etrusco netshvis) erano il fegato, la milza, il cuore e i polmoni; ma non avevano tutti la stessa importanza. Per quanto riguarda il cuore, sappiamo che in Etruria si cominciò a esaminarne le caratteristiche solo in seguito alla partenza di Pirro dall’Italia (ca. III sec. a.C.). Per ciò che attiene ai polmoni, Seneca scrive che essi potevano rovesciare il responso ottenuto dalla consultazione di altri organi. L’organo che aveva maggiore importanza nell’indagine era certamente il fegato: da qui il fatto che spesso l’extispicio è definita anche epatoscopia.
Il primo a trarre auspici dagli uccelli fu Care, che dette il nome alla Caria; Orfeo aggiunse quelli tratti dagli altri animali.Plinio VII, 203
Del fegato venivano considerati il colore, la consistenza e soprattutto le dimensioni complessive e delle sue parti; le più significative erano il lobo caudato (lobus caudatus o caput iocineris) e la cistifellea (vesica fellea). Se in un fegato mancava il caput iocineris, se ne ricavava un responso funesto; se, invece, esso presentava dimensioni maggiori del normale, se aveva grandezza doppia (caput duplex) o se presentava un’apofisi dorata, ne derivava un presagio estremamente positivo.
L’epatoscopia è un’arte in cui gli Etruschi eccellevano e di ciò abbiamo testimonianza nella produzione figurata.
Sul retro di uno specchio proveniente da Vulci e databile alla fine del V sec. a.C. vi è la rappresentazione di un aruspice alato che, coperto solo in parte da un mantello e con una gamba appoggiata su una roccia, esamina un fegato; la didascalia onomastica Chalchas riporta all’indovino omerico Calcante, ma l’aggiunta delle ali è un attributo etrusco spiegabile con la sua capacità di avvicinarsi agli Dei.
Su un altro specchio proveniente da Tuscania e databile al III sec. a.C. è rappresentato Pava Tarchies, un giovane in veste di aruspice che, abbigliato con ampio mantello e copricapo a punta e sempre con una gamba appoggiata su una roccia, sta esaminando un fegato all’interno di un gruppo di personaggi, uno dei quali è chiamato Tarchunus. È probabile che si tratti dell’iniziazione alla dottrina delle cose occulte di Tarconte, l’eroe eponimo di Tarquinia, da parte di Tagete, profeta al quale è legata la rivelazione della disciplina etrusca.
L’oggetto archeologico di maggiore interesse per questo settore è il modellino bronzeo di fegato ovino, databile agli inizi del I sec. a.C. e ritrovato nei pressi di Piacenza, città dove attualmente è conservato. La superficie convessa del modellino è divisa in due lobi, uno dedicato a Usil, il Sole, e l’altro dedicato a Tivr, la Luna. La parte piatta della superficie è divisa in quaranta caselle, ognuna delle quali è occupata da uno o più nomi di divinità. Sedici di queste, di forma rettangolare, sono distribuite lungo il margine. La divisione in sedici sezioni corrisponderebbe alla divisione del cielo riportata dalle fonti: tracciate due linee ideali in senso nord-sud ed est-ovest, si ottengono quattro quadranti, ciascuno dei quali è a sua volta diviso in quattro sezioni; ognuna di esse è sede di divinità, quelle a oriente sono considerate favorevoli, mentre quelle a occidente sono considerate sfavorevoli. Nonostante ciò, non è possibile stabilire una corrispondenza precisa tra le divinità delle sedici sedi della tradizione letteraria e quelle delle sedici sezioni periferiche del fegato di Piacenza.
È noto che l’epatoscopia fosse una tecnica divinatoria diffusa già molti secoli prima tra le civiltà che si svilupparono nel bacino del mar Mediterraneo, in particolare nell’area del Vicino Oriente, soprattutto nel Regno di Babilonia e nell’Impero di Khatti o Ittita. Ma il rapporto tra l’epatoscopia di questi popoli e quella degli Etruschi non va al di là dell’utilizzo dello stesso organo da consultare durante le indagini.
Bibliografia
- Gilda Bartoloni, Introduzione all’etruscologia, Milano, Hoepli, 2011.
- Camporeale Giovannangelo, Gli etruschi. Storia e civiltà, Torino, UTET, 2011.
- Gaio Plinio Secondo, Storia naturale, vol. II: Antropologia e zoologia (Libri 7-11), a cura di Alberto Borghini, Elena Giannarelli, Arnaldo Marcone e Giuliano Ranucci, Torino, Einaudi, 1983 («I Millenni»).
Immagini
- in testata: scena sacrificale dal tempio di Giove capitolino (dal 1808 al Louvre).
- in evidenza: retro di uno specchio proveniente da Vulci (fine V sec. a.C.).