Matrepperna, nacchera, cozza pinna o semplicemente perna sono i nomi attribuiti alla Pinna nobilis (Linneo, 1758), il bivalve più grande del Mediterraneo: può raggiungere infatti fino a un metro di lunghezza. Si tratta di un organismo sessile, pertanto necessita di strutture per ancorarsi al substrato, che può essere roccia o sabbia. Per tale scopo secerne una fibra grezza di colore marrone dorato da cui si ricava quello che fu uno dei filati più preziosi delle epoche passate, il bisso marino o seta di mare, «che gli antichi si servivano d’una tal lanugine per le loro vesti» (Carducci, 1771).
È però certissimo, che dal ventre dell’animale nasca legata con nervosa sostanza una quasi ciocca di capelli delicatissimi al tatto. Questa si chiama da alcuni Lana da altri Bisso marino, a distintione dal terrestre, fatto di lino, ò bambagia, secondo altri. È di colore castagno scuro, e nelle maggiori pinne si stende alla lunghezza d’un palmo al più. Buonanni, 1681
La biologia di tale mollusco è descritta nella Storia Naturale di Plinio, e ripresa da Buonanni (1681); in particolare si fa riferimento alla simbiosi con un granchio, detto pinnotheres, poiché essa «non è mai senza un compagno», infatti «La pinna si apre, offrendo dall’interno ai pesci minuti il suo corpo, privo di occhi. Subito essi vi si lanciano dentro e, con audacia tanto maggiore di quanto possono fare ciò liberamente, la riempiono. Avendo spiato questo momento, l’altro animale che svolge la funzione di vedetta glielo indica con un leggero morso. Essa, comprimendosi, uccide tutto quello che ha racchiuso e ne assegna una parte al socio.» (Plinio, Nat. His. IX, v. 142).
Senza dubbio, ciò che desta più curiosità di questo animale è il ciuffo di filamenti che produce. Il termine bisso, dal greco ἡ βύσσος, indica un tessuto prezioso e raffinato, letteralmente significa lino fino, ed è un termine che compare sin da tempi antichissimi. È citato persino nella Bibbia: nel II libro delle Cronache dell’Antico Testamento, Salomone chiede per la costruzione del tempio che il re di Tiro gli mandi un uomo esperto nei filati di bisso e nella porpora cremisi e violetto; in un altro passo dello stesso libro si descrivono le vesti di bisso dei cantori leviti del tempio. Si dice che Cleopatra si mostrò alla battaglia di Azio (31 a.C.) vestita con velo di bisso, dello stesso materiale erano le tuniche cerimoniali dei sacerdoti d’Egitto e persino il re Davide accompagnò l’Arca dell’Alleanza adornato da una stola di bisso. Ancora, nella Taranto dell’epoca classica erano famose le tarantinidie vesti femminili trasparenti e provocanti dai riflessi dorati, colorazione tipica del bisso marino. In realtà, la letteratura è molto controversa: il termine fu usato per la prima volta per indicare il tessuto derivato dalla penna solo nel 1555, dal naturalista Guillaume Rondelet (1507-1566), e poi lo utilizzò Buonanni nella sua opera sulle conchiglie (1681) distinguendo il bisso marino da quello terrestre. Per questo motivo, il termine bisso nelle autori precedenti al XVI secolo, Aristotele compreso, molto probabilmente non è riferito al filato ricavato dalla fibra dei bivalvi, bensì ad altri tessuti come il lino. È certo però che il bisso marino era molto conosciuto nelle epoche passate e ritenuto uno dei filati più preziosi, soprattutto grazie alle numerose citazioni presenti nella Bibbia, tuttavia non è chiaro a quale tessuto si riferisse il termine.
Il bisso è caratterizzato da un ciuffo di fibre sottili e resistenti, lunghe fino a 20 cm, che si formano attraverso una ghiandola situata nella zona del piede della conchiglia: il piede mobile acquisisce la forma di un canale, in cui scorre la secrezione delle proteine formatesi nella ghiandola del bisso. La secrezione viene convogliata dalla punta del piede su una superficie adeguata all’ancoraggio, caratterizzata da radici di alghe, sabbia, sassi, formando caratteristici punti di adesione a forma di ventaglio. Il diametro della fibra è di 10÷15 μm, simile alle altre fibre animali e vegetali, soprattutto alla seta del bombice del gelso. Anche la struttura chimica della fibra non semplifica la sua identificazione, ma ciò che la caratterizza è la sua sezione di forma ellittica.
Nell’antichità, la città di Taranto era sicuramente uno dei centri puù importanti per la lavorazione del bisso, infatti esso era anche detto lanapenna tarentina (Delizie Tarentine vol. II).
Qui, la raccolta dei grandi bivalvi avveniva con l’ausilio di uno strumento citato nella Naturalis Historia di Plinio, il pernilegum, formato da due branche di ferro curve ad arco congiunte ad una pertica di lunghezza proporzionale alla profondità del fondale. Il bioccolo di filamenti si estraeva aprendo la conchiglia e tagliandolo direttamente dal suo piede, in questo modo si utilizzavano i filamenti in tutta la loro lunghezza con la conseguente morte del mollusco. Tale tecnica quindi richiedeva non solo una grande abilità, ma soprattutto un elevato costo, come ricorda Carducci: «La preparazione di questa lanugine poi riesce di gran fatica, oltre d’esser ella di prezzo non lieve; giacché ridotta in tante mappe la soglion vendere i pescatori a’ 16, 18, 20, 24 carlini di nostra moneta la libra, secondo son esse più e men grosse e folte, e di pelo lungo» (Carducci, 1771).
Una volta raccolte, le fibre dovevano subire diversi lavaggi per eliminarne la salinità e renderle più elastiche, essere asciugate all’ombra e pettinate più volte. Per schiarire le fibre, uno di questi bagni era effettuato con urea di vacca (sostituita nei secoli con succo di limone), per poi passare ad ulteriori lavaggi e, infine, una volta tagliate via dalla loro radice, passavano alla fase di filatura e infine alla colorazione. Secondo l’antica tecnica fenicia il prezioso colorante utilizzato per tingere l’altrettanto prezioso filato era la porpora, anche se nelle Delizie Tarentine leggiamo che «Conobbero anche la cocciniglia, con cui colorivano le vesti di bisso» (Carducci, 1771). Si ottenevano così delle vesti talmente costose da poter essere sfoggiate soltanto da personalità di alto rango come imperatori, regine e sacerdoti.
Il declino dei filati di bisso cominciò già al tempo dell’Imperatore Giustiniano (500 d.C.), periodo in cui fu introdotto in Europa il bombice del gelso, meglio conosciuto come baco da seta. In breve tempo la produzione di seta si diffuse in tutta la penisola fino quasi a soppiantare quella del bisso, che aveva costi molto più elevati e richiedeva tecniche più raffinate. La lavorazione del bisso si limitò sempre più a ristrette famiglie di artigiani che realizzavano per lo più pezzi unici riservati a persone o eventi particolarmente importanti. Ciò che rimane di questa tradizione è un piccolissimo polo di lavorazione del bisso in Sardegna, ad oggi attivo per scopi puramente illustrativi e divulgativi.
Testimoni della raffinata manifattura millenaria del bisso di Taranto sono i pochi pezzi custoditi in alcuni prestigiosi musei del mondo. L’oggetto più antico identificato è una cuffietta in maglia risalente al XIV secolo rinvenuta nel 1978 nei pressi della basilica di Sain-Denis, a nord di Parigi, e tuttora custodita al Musée d’art et d’Histoire di Saint-Denis. La maggior parte dei reperti ritrovati sono costituiti da scialli e guanti: al Museum für Naturkunde di Berlino si può ammirare un paio di guanti, probabilmente un dono fatto dal vescovo di Taranto al re Federico Guglielmo III in occasione della sua visita a Napoli nel 1822.
Oggi la Pinna nobilis è un animale in pericolo di estinzione, infatti la presenza del mollusco nei nostri mari si limita a pochi esemplari, pertanto la pesca è vietata. Il progetto “Bisso marino” avviato in Svizzera nel 2004 si propone di censire il numero di esemplari ancora presenti nel Mediterraneo e di cercare quanti più reperti e fonti risalenti alla lavorazione del bisso nella sua epoca d’oro per avvalersi di un patrimonio bibliografico sempre in crescita.
Bibliografia
- Filippo Buonanni, Ricreatione dell’occhio e della mente nell’osservation’ delle chiocciole proposta a’ curiosi delle opere della natura, Roma, Varese, 1681.
- Filippo Buonanni, Rerum naturalium historia, Roma, Ex Typographio Zempelliano, 1782.
- Cataldo Antonio Atenisio Carducci, Delle delizie tarantine. Opera postuma di Tommaso Niccolò d’Aquino patrizio della città di Taranto […] , Napoli, Stamperia Raimondiana, 1771.
- Diego Lanza, Mario Vegetti, Opere Biologiche di Aristotele, Torino, Unione Tipografico-editrice Torinese, 1971.
- Gaio Plinio Secondo, Storia naturale, vol. II: Antropologia e zoologia (Libri 7-11), a cura di Alberto Borghini, Elena Giannarelli, Arnaldo Marcone e Giuliano Ranucci, Torino, Einaudi, 1983 («I Millenni»).
- Giuseppe Saverio Poli, Testacea utriusque Siciliae eorumque historia et anatome tabulis aeneis illustrata, Parma, Ex Regio Tipographeio, 1791.
Sitografia
- www.muschelseide.ch/it.html
Immagini
- in testata: Tavola XXXVI di Giuseppe Saverio Poli (1791).
- in evidenza: esemplare giovane di Pinna nobilis (foto di Fabio Russo).