Il sacrificio dell’agnello

La tradizione vuole che la domenica di Pasqua l’agnello imbandisca la nostra tavola; il perché questa carne dal gusto così particolare sia mangiata proprio quel giorno, è da ricercare in tempi antichissimi, quando il piccolo di Ovis aries (Linnaeus, 1758) era considerato un animale sacrificale.
Nel II millennio a.C., il popolo mesopotamico degli Ittiti immolava un agnello ogni qual volta necessitasse di una grazia o invocasse il perdono della divinità (Furlani, 1932). La vittima sacrificale «non può essere toccata da una persona impura, né può subire violenza alcuna da parte di un impuro» (Furlani, 1932). Per questo la cerimonia era svolta dai bārū (divinatori) che, mentre un aiutante teneva l’animale per la fronte, recitava uno dei tanti ikribu (preghiere), invitando gli dei ad accettare benignamente il dono o di rispondere alla domanda mantica. Terminato tale rituale, l’agnello era ucciso recidendone le vene del collo. Per gli Ittiti era fondamentale presentare alla divinità un animale perfettamente in salute e integro. Per questo qualsiasi «atteggiamento brusco, ostile verso la vittima, come colpi di bastone» non era ammesso all’interno del rituale poiché con «tali atti la vittima cesserebbe di essere perfetta e quindi non costituirebbe più un dono adatto a un dio» (Furlani, 1932).

L’idea della vittima senza difetto si conserva nella tradizione ebraica. Il popolo di Israele infatti, ricevette da Dio il compito di scegliere tra gli agnelli o i capretti «una pecora perfetta, maschio di un anno» (Esodo 12, 6-15).
L’animale doveva essere preservato fino alla prima notte di luna piena di primavera, cioè il quattordicesimo giorno del mese di Nissan (tra marzo e aprile), che rappresenta la Pasqua ebraica. In quell’occasione veniva sgozzato. Gli ebrei donavano l’agnello integro alla divinità proprio come gli Ittiti, ma a differenza di questi ultimi, l’atto sacrificale era svolto senza sacerdote e avveniva una sola volta l’anno in una data ben precisa.
La carne del sacrificio pasquale veniva consumata dalla comunità ebraica rigorosamente arrostita. Nulla doveva avanzare, nemmeno la testa e le interiora. Nel caso accadesse una tale eventualità, i resti dovevano essere bruciati, senza frantumare le ossa, entro il mattino seguente.
L’episodio narrato nell’antico testamento introduce la Pasqua cristiana che, pur perdendo l’atto sacrificale, conserva l’agnello come simbolo di sacrificio, assimilandolo alla figura di Gesù. Assente nei vangeli sinottici, la corrispondenza agnello-Cristo si trova nel vangelo di Giovanni, nel passo in cui Giovanni Battista lo identifica come «l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo» (Giovanni 1,29). L’identificazione di Gesù come agnello ha reso questo animale il simbolo della Pasqua cristiana e di conseguenza, il piatto più prelibato di questa festa.
La tradizione culinaria dell’agnello a Napoli è legata al popolo, essendo il cibo più consumato del «povero in primavera e in està» perché, nonostante la carne sia più tenera di quella di montone, è meno nutriente (Spatuzzi e Somma, 1863). La consistenza tenera della carne, si conserva fino all’età di un anno ma, essendo molto umida, è consigliabile cuocerla arrosto e condita con rosmarino, aglio, salvia e chiodi di garofano per addolcirne il sapore (Pisanelli, 1589).
I napoletani inoltre distinguono l’agnello vernereccio da quello curdisco. Il primo è l’agnello concepito nel vernus, in particolare dalla metà di maggio fino a giugno. Dei nati la maggior parte sostituisce le pecore morte del gregge o servono per la riproduzione, la restante è venduta (Soppelsa, 2016). «Gli allievi cordeschi sono tutti venduti» (Gasparrini, 1845) e utilizzati nella preparazione di piatti pasquali. Infatti, essendo tardivi, cioè nati tra gennaio e aprile, hanno una carne molto tenera e perciò più prelibata.
Fra tutte le ricette napoletane con protagonista l’agnello, è famoso il curdisco di Sant’Anastasia che, a dispetto della tradizione, non è arrostito ma al forno. Sull’Appennino Campano-Lucano invece si preparano gli ammugliatielli, involtini di interiora di agnello, chiamati così perché ricordano un gomitolo sia per la forma sia perché per prepararli devono essere avvolti come si fa con la lana. Sono imbottiti con aglio, prezzemolo, peperoncino e formaggio, si mangiano per lo più arrostiti ma si preparano anche in altri modi.

Bibliografia

  • Giuseppe Furlani, Il sacrificio nella religione dei Semiti di Babilonia e Assiria, Atti della Reale Accademia nazionale dei Lincei, in Memorie della classe di scienze morali, storiche e filologiche, CCCXXIX, serie VI, vol. IV, fasc. III, 1932, pp. 105-370.
  • Guglielmo Gasparrini, Breve ragguaglio dell’agricoltura e pastorizia del regno di Napoli di qua del faro, Napoli, Tipografia del Filiatre-Sebezio, 1845.
  • Bibbia, La Bibbia di Gerusalemme, Trento, LEGO, 2013.
  • Bibbia, La Bibbia dei LXX. 1. Il Pentateuco, Roma, Edizioni Dehoniane, 1999.
  • Baldassarre Pisanelli, Trattato della natura dei cibi, et del bere, Carmagnola, Marc’ Antonio Bellone, 1589.
  • Ottavio Soppelsa, Dizionario Zoologico Napoletano, Napoli, D’Auria, 2016.
  • Achille Spatuzzi, Luigi Somma, Saggi igienici e medici sull’alimentazione del popolo minuto di Napoli, in Sull’alimentazione del popolo minuto in Napoli, a cura dell’Accademia Pontaniana di Napoli, Stamperia della Real Università, 1863.

Immagini

  • in testata: Francisco de Zurbarán, Agnus Dei (1635-1640, Museo del Prado).
  • in evidenza: Jacopo Da Ponte detto Jacopo Bassano, Ultima cena (1546, Galleria Borghese).



Gli animali di Ecate, la Dea dal triplice volto

Dea degli incroci, dei trivi, dei cicli lunari e dei viaggi, Ecate è divinità psicopompa, capace di viaggiare nel mondo dei vivi e in quello dei morti, accompagnata da spettri, da cani, dotata di tre volti e di tre età, è una delle figure più affascinanti e misteriose del mondo pagano. Le origini di Ecate sono poco note, ma certamente sono origini indoeuropee o, con più probabilità, pre-indoeuropee. Esiodo la ritiene figlia del titano Perse e di Asteria, e quindi è diretta discendente della stirpe titanica. Fu Ecate a sentire le grida di Persefone, rapita da Ade presso il Lago Pergusa e condotta negli Inferi, e fu sempre lei ad avvertire Demetra dell’accaduto. È anche la dea della magia, che regna sui demoni malvagi, nella religione greca e romana (in latino: Hecata o Hecate; in greco antico: Ἑκάτη, Hekátē).
Spesso è raffigurata con le torce nelle mani, per la sua capacità di accompagnare anche i vivi nel regno dei morti (la Sibilla Cumana traeva da Ecate la capacità di dare responsi). Dea degli incantesimi e degli spettri, Ecate è raffigurata in modo triplice (giovane, adulta e vecchia), ed è rappresentata dal numero Tre; le sue statue proteggevano i viandanti e le erano propri gli appellativi Enodia e Trioditis.

Ecate combatte Clizio, a sinistra. Dettaglio del Rilievo dall’Altare di Pergamo, IV secolo a.C. (da wikipedia)

Il sentiero collega elementi fisici e naturali del paesaggio con gli elementi di un paesaggio simbolico, unendo diversi piani di esistenza e di coscienza. «I crocicchi sono sempre stati luoghi incantati, dominati dagli Dei dei trivi e dei quadrivi, luogo d’incontro di fattucchiere e banditi, cospiratori e cavalieri» (Pagani, 1987). I sentieri sono misteriosi luoghi di incontri che connettono gli elementi del viaggio al simbolo arcaico del labirinto, quindi della ricerca e delle difficoltà che l’uomo deve affrontare nella sua esistenza terrena.
Le sue figlie erano chiamate Empuse, ma spesso veniva associata a una natura bisessuata, includendo in sé entrambi i principi della generazione: il maschile e il femminile. Per questo motivo venne anche definita “fonte della vita” e le venne attribuito il potere vitale su tutti gli elementi.

Quale ne’ pleniluni sereni
Trivia ride tra le ninfe etterne
che dipingon lo ciel per tutti i seni
Dante, Commedia, Paradiso, XXIII, 25-27

Fu anche divinità delle terre selvagge e del parto nella Tracia. Nell’esoterismo greco, di derivazione egizia, in riferimento a Ermete Trismegisto e nei papiri di magia della Tarda Antichità, fu descritta come una creatura a tre teste: una di cane, una di serpente e una di cavallo.
Tra le testimonianze letterarie, Ecate fu protagonista nella Teogonia di Esiodo (vv. 411-452): si tratta del noto inno a lei dedicato, nel quale Zeus “la favorì più di tutti gli altri Dei”. Nella Teogonia esiodea è la figura tutelare delle strade, in particolare nei punti dove esse si incrociano. A Roma sarà Trivia: come suggerisce l’etimo del termine, essa prende nome e forma proprio da questa sua connessione con il trivium stesso, la zona di incontro di tre vie. È interessante notare anche un’etimologia comune con l’aggettivo triviale, quindi popolare, del volgo, delle strade. Ecate è anche divinità in stretta connessione con il popolo, che protegge e aiuta prendendo diverse forme.

Statua di Ecate del III secolo d.C. in mostra al Museo di Adalia, Turchia.

Altra connessione di particolare interesse è quella che esiste tra Ecate e un’altra divinità collegata alle zone liminali: quella di Giano, rappresentato tradizionalmente come bifronte.
Giano viene citato con Ecate nel sesto inno di Proclo, in cui il poeta invoca le due divinità a soccorso del proprio cammino esistenziale, proprio in qualità di “custodi delle porte” e guide nei percorsi iniziatici. Riguardo a Giano, le analogie con Ecate vanno anche oltre: nonostante in Giano siano espresse, nell’iconografia, due facce – riconducibili al passato e al presente –, si tratta comunque di una divinità dal triplice aspetto. Come sostiene l’esoterista Guénon, infatti: «fra il passato che non è più e il futuro che non è ancora, il vero volto di Giano, quello che guarda il presente, non è, si dice, né l’uno né l’altro di quelli visibili. Questo terzo volto, infatti, è invisibile perché il presente, nella manifestazione temporale, non è che un istante inafferrabile; ma, quando ci si innalza al di sopra delle condizioni di questa manifestazione transitoria e contingente, il presente contiene al contrario ogni realtà.» (Guénon, 1990).
Plutarco la descrive come una barriera tra mondo fisico e spirituale. Ecate trasmette il principio della vita, grazie anche alla sua natura maschile e femminile al tempo stesso.
Nell’iconografia Ecate viene rappresentata spesso con sembianze di cane o seguita da cani infernali ululanti ed era considerata protettrice dei cani.

In un frammento di Porfirio, riportato in Eusebio, Praeparatio Evangelica, IV, 23, 175, c-d, vengono descritti gli attributi lunari di una statuetta che reca l’effige di Ecate: vesti bianche, sandali dorati – o bronzei, a seconda che si tratti di luna crescente o luna piena – e delle torce accese tra le mani. Tra le braccia vi è un canestro pieno di frumento, un ramo d’olivo e dei fiori di papavero. Ecate viene descritta “con volto di cane, tre teste, inesorabile, con dardi dorati …

Il cane è un animale associato al mondo ctonio, ad esempio, Cerbero è guardiano dei cancelli dell’oltretomba. Considerato guida fedele nella vita terrena, il cane era sacrificato ai defunti per accompagnarli nel viaggio negli Inferi: ciò accadeva anche nelle culture precolombiane, dove l’animale era utilizzato nei culti funerari sempre con la medesima funzione.
L’altro animale sacro alla dea Ecate era il cavallo. Nonostante esso rappresentasse la forza e la vitalità, questo simbolo era associato anche al regno dei morti. Il cavallo è immagine solare se traina il carro di Apollo, ma evoca la morte e la distruzione se diventa la cavalcatura dei cavalieri dell’Apocalisse. È importante notare che sia Nettuno che l’antica divinità romana Consus (che presiedeva alla conservazione del grano nel terreno e che, secondo Dionigi di Alicarnasso, poteva essere identificato con Nettuno Seisichthon – che “scuote la Terra” –  o con il Neptunus Equestris – ovvero Nettuno “protettore dei cavalli”) avevano come animali sacri i cavalli e che anche Plutone, re dell’Ade, secondo il mito, rapì Proserpina,  mentre la fanciulla coglieva i fiori sulle rive del lago Pergusa,  trascinandola sulla sua biga trainata da quattro cavalli neri. Nel Medioevo, inoltre, il cavallo fu anche simbolo della magia e gli si attribuirono proprietà divinatorie e profetiche.

La testa di Cavallo di Virgilio Mago, leggendaria scultura, probabilmente attribuibile a Donatello (MANN, Museo Archeologico Nazionale di Napoli)

In relazione a questo aspetto magico, è necessario ricordare quelle entità demoniache denominate negli oracoli “cani” e prese come scorta di Ecate nelle sue epifanie. Si tratta di creature che si cibano delle anime, che approfittano della debolezza umana per ingannare i mortali, per farli deviare dal cammino della purificazione. Nell’ottava Satira di Orazio, quando egli descrive il rituale di evocazione negromantica officiato da Sagana e Canidia, mentre le megere svolgono l’orrenda cerimonia, con il sacrificio di un’agnella nera, si odono i cani infernali (infernae canes) di Ecate in lontananza. I demoni-cani sono fantasmi notturni che fedelmente accompagnavano la Dea conducendo l’uomo alla pazzia.
Alcune fonti tradizionali attribuivano alla forma terrestre di Ecate anche un aspetto di leone o di serpente. Il leone è simbolo del Sole e della forza. In Giappone, sotto forma di cane-leone (karashish), era posto all’ingresso delle aree templari, come custode.
Il serpente è connesso con la morte e con il mondo infernale per le sua abitudini sotterranee; però può anche avere una funzione positiva associata alla vita o alla resurrezione, al cambiamento benefico. Occorre considerare, infatti, la sua capacità di rigenerazione in sèguito alla muta. L’uroboros, il “serpente che si morde la coda”, simbolo del tempo ciclico e dell’eterno ritorno, è infatti legato, nella simbologia alchemica, all’idea di purificazione delle sostanze, all’idea di ascesi, di passaggio a un dominio superiore, che apparteneva certamente all’apparato simbolico dell’Ecate celeste.

Uroboro (da Theodoros Pelecanos, Synosius, 1478).

Infine, un piccolo riferimento al numero di Ecate: il Tre. Secondo la filosofia pitagorica, ogni forma può essere espressa da un numero secondo archetipi divini, creando, in questo modo, l’armonia del cosmo. I numeri sono quindi l’archè, il principio di ogni forma e di ogni cosa. Dio, l’originario, è l’Uno, che si manifesta nella dualità. Dalla tesi e dall’antitesi nasce, infine, la sintesi della Trinità, cioè dell’integrazione degli opposti e, quindi, della perfezione. Le Grazie (Gratiae e Charites), dee della bellezza al sèguito di Venere/Afrodite, le Ore, personificazione delle stagioni secondo un’originaria tripartizione dell’anno, le Parche (o Moire, o Fate), figlie della notte, che assegnavano agli uomini il loro destino: erano tutte rappresentazioni del numero Tre.

Ecate riunisce in sé la totalità degli elementi, sia superiori che inferiori, accogliendo caratteristiche specularmente opposte: luce e tenebre, simboli infernali e celestiali, elementi maschili e femminili. In questa congiunzione degli opposti, Ecate è quindi divinità dell’Armonia, simbolo di ricerca spirituale e iniziatica, che sostiene l’uomo nel suo cammino, aiutandolo a collegare, con sapienza, il mondo sotterraneo con quello terreno e quello terreno con quello sovraumano, quindi una conoscenza umana con una sovrarazionale.

 

Bibliografia

  • Pietro Pagani, Origine del fascino del paesaggio alpino, «CAI», n.1, 1987.
  • René Guénon, Alcuni aspetti del simbolismo di Giano, in Simboli della Scienza sacra, Milano, gli Adelphi, 1990.
  • Dante Alighieri, Commedia, a cura di Natalino Sapegno, La Nuova Italia Editrice, Firenze, 1981.

 

Immagini

  • in testata: Battista Dossi, La notte (1544-1548, Gemäldegalerie Alte Meister, Staatliche Kunstsammlungen Dresden; foto di Estel/ Klut da Wikipedia)
  • in evidenza: William Blake, Ecate o le tre Parche, 1795, Londra.



Audacia e fierezza in combattimento: il cinghiale

Il cinghiale (Sus scrofa Linnaeus, 1758) è un mammifero artiodattilo della famiglia dei suidi, considerato un’ambìta preda per la sua carne, ma contemporaneamente un fiero avversario per la sua fermezza in combattimento. Per questo strettissimo legame con l’uomo, il cinghiale ricoprì spesso ruoli da protagonista nella mitologia di numerose popolazioni, cessando, recentemente, di essere una fonte di cibo di primaria importanza per l’uomo, soppiantato dal suo discendente domestico, il maiale.

Gli esemplari adulti misurano fino a 180 cm di lunghezza, per un’altezza al garrese che può sfiorare il metro e un peso massimo di un quintale circa (de la Fuente, 1983). Sussistono tuttavia grandi variazioni di dimensioni e peso a seconda delle sottospecie, con tendenza all’aumento muovendosi da Sud-Ovest a Nord-Est: gli esemplari spagnoli di cinghiale, infatti, raramente superano gli 80 kg di peso, mentre in Russia si ha notizia di esemplari di peso superiore ai 300 kg. Ad ogni modo, i maschi hanno dimensioni e peso maggiori rispetto alle femmine.
Nelle Alpi italiane il peso oscilla tra i 100 ed i 200 kg: nel Centro e Sud Italia e in Sardegna, invece, il peso medio è sugli 80÷90 kg, con esemplari che possono raggiungere 150 kg, come il cinghiale sardo.

Sus scrofa Linnaeus, 1758 (foto di 4028mdk09, wikipedia)

Sus scrofa Linnaeus, 1758 (foto di 4028mdk09, wikipedia).

La caratteristica del cinghiale sono i canini, trasformati in zanne: si tratta di denti a crescita continua, presenti in ambedue i sessi, ma che tuttavia solo nel maschio hanno dimensioni tali da protrudere al di fuori della bocca, inarcandosi verso l’alto. I canini inferiori sono detti difese e sono più grandi di quelli superiori, denominati coti: profondamente conficcati nella mandibola, essi possono raggiungere (nel cinghiale maschio) anche i 30 cm di lunghezza, mentre sono consuete lunghezze comprese fra i 15 e i 20 cm. In ogni caso, zanne eccessivamente lunghe risultano svantaggiose per l’animale, in quanto incurvandosi all’indietro divengono inutili come arma d’offesa. Le zanne cominciano a spuntare a partire dal secondo anno d’età, e, nel giro di un anno, quelle inferiori divengono più lunghe di quelle superiori. Le zanne hanno per il cinghiale una duplice funzione: vengono utilizzate sia come strumenti da lavoro, ad esempio per facilitare l’attività di scavo nel terreno, che come strumenti di offesa, per difendersi dai predatori o per competere con gli altri esemplari durante il periodo degli accoppiamenti.

Il cinghiale euroasiatico è uno dei mammiferi terrestri con la maggior distribuzione geografica. Il suo areale originale si estende dalla Spagna al Giappone, e include anche il Nord-Africa. Attualmente, in seguito a introduzioni operate in passato spesso a scopi venatori, questa specie si ritrova in tutti i continenti tranne l’Antartide. Alla stessa specie del cinghiale appartiene il maiale domestico, di cui è il progenitore selvatico e con il quale si può ibridare producendo prole fertile. L’interesse per il cinghiale non è soltanto inerente alla conservazione o di tipo venatorio, ma anche economico. Il patrimonio genetico di questa specie si può infatti considerare come un serbatoio di variabilità genetica disponibile anche per le forme domestiche.
Contrariamente ad altri ungulati, il cinghiale ha un elevato potenziale riproduttivo, e si adatta anche a condizioni ecologiche molto differenziate. Ciò nonostante, la caccia indiscriminata e i cambiamenti del territorio indotti dall’uomo negli ultimi secoli avevano provocato la sua estinzione in molte regioni europee, come ad esempio l’Inghilterra, la Scandinavia, e molte aree della Russia Occidentale. Anche in Italia la numerosità e la distribuzione del cinghiale hanno subìto una grande riduzione in passato. Una volta presente in tutta la penisola, all’inizio del ventesimo secolo le uniche aree dove era ancora esistente erano la Sardegna e, in maniera molto discontinua e irregolare, in Centro-Italia. Benché nel cinghiale come in quasi tutte le specie il riconoscimento di sottospecie sia molto difficile, in Sardegna e in Centro-Italia furono identificate due sottospecie endemiche: rispettivamente Sus scrofa meridionalis e Sus scrofa majori. Successivamente, ma soprattutto a partire dagli anni ’50, in Italia come nel resto d’Europa si assistette a una significativa ripresa demografica. Le cause di questo fenomeno, che adesso è divenuto un vero problema per i danni arrecati dalla specie alle colture e per il disturbo ecologico che sta provocando, sono state molte. Oltre a una naturale ricolonizzazione da aree adiacenti, ad esempio dalla Francia, hanno, con ogni probabilità, contribuito il cambiamento climatico, la modificazione delle pratiche agricole, la collocazione di siti artificiali di foraggiamento e la riduzione del numero di predatori. Secondo molti studiosi, però, un contributo determinante alla espansione demografica del cinghiale in Italia è stato dato dalle reintroduzioni. Infatti, in molte aree, animali di origine autoctona ma anche alloctona, provenienti soprattutto dal’Europa centro-orientale (Ungheria, Polonia, ecc.) furono utilizzati per pratiche di ripopolamento. Da un punto di vista della conservazione della specie, quindi, è necessario capire se in Italia esistano ancora delle popolazioni relitte di cinghiale, riconducibili cioè a gruppi (o sottospecie) distinte dagli altri animali presenti in Europa. Oppure se tali popolazioni, presenti in passato, siano ormai scomparse, geneticamente diluite durante l’ibridazione subìta dai loro antenati con animali alloctoni (Frankham et al., 2006).

I cinghiali sono animali dalle abitudini crepuscolari e notturne: durante il giorno preferiscono riposare distesi in buche nel terreno che scavano col muso e gli zoccoli fra i cespugli, per poi ingrandirle con l’usura. Durante l’inverno, essi hanno l’abitudine di imbottire le loro buche con frasche e foglie secche.
Sono certamente animali sociali, che vivono in gruppi composti da una ventina di femmine adulte e dai loro cuccioli, guidate dalla scrofa più anziana: in alcune zone particolarmente ricche di cibo, tuttavia, si trovano gruppi che includono anche più di 50 animali, spesso risultato della fusione di più gruppi.

Tracce del passaggio di cinghiali, probabilmente ibridi tra popolazioni autoctone e cinghiali provenienti dal Nord Europa; presso l’Oasi WWF Lago di Conza (Av).

Tracce del passaggio di cinghiali, probabilmente ibridi tra popolazioni autoctone e cinghiali provenienti dal Nord Europa; presso l’Oasi WWF Lago di Conza (Av).

I maschi più anziani conducono una vita solitaria per la maggior parte dell’anno, mentre i giovani maschi che ancora non si sono accoppiati tendono a riunirsi in piccoli gruppi. Il territorio appartenente a ciascun gruppo viene delimitato tramite secrezioni odorose della zona labiale ed anale: i territori dei maschi sono solitamente più grandi di quelli delle femmine.
I vari esemplari comunicano fra loro attraverso una vasta gamma di suoni, che comprendono una serie di grugniti a varie frequenze, grida e ruggiti che possono avere la funzione di comunicare la propria appartenenza ad un gruppo o la disponibilità all’accoppiamento o al combattimento.
I cinghiali sono noti per l’indole aggressiva: se presi alla sprovvista, anche se feriti, attaccano, combattendo strenuamente in modo tale da rappresentare un pericolo per le vittime di tali attacchi.
Gli attacchi dei cinghiali, sebbene raramente mortali per predatori come l’uomo o l’orso, possono lasciare ricordi indelebili nell’aggressore, come cicatrici e mutilazioni.
Si tratta di animali che hanno molta cura della loro igiene: l’abitudine di rotolarsi nel fango, definita ‘insoglio’, è la prima azione che l’animale compie dopo essersi svegliato e ha la duplice funzione di rinfrescare il corpo nei mesi caldi, proteggendolo da scottature dovute ai raggi solari, e di favorire la cicatrizzazione delle numerose ferite, di entità più o meno grave, che l’animale spesso si procura combattendo o muovendosi nel sottobosco.
Il principale predatore dei cinghiali è l’uomo: in genere è abbastanza raro che un predatore scelga di cacciare questi animali, se dispone di altre specie meno impegnative da cacciare. I cinghiali, infatti, sono animali forti, che non esitano ad attaccare per primi se disturbati.
Tuttavia il lupo si è dimostrato un temibile predatore per il cinghiale: nonostante tendano a nutrirsi dei cuccioli lasciati temporaneamente incustoditi dalle femmine, alcune popolazioni locali di lupo (fra cui quelle italiane) si nutrono abitualmente anche di cinghiali adulti (Mattioli et al., 1992).

Nella Naturalis historia di Plinio il Vecchio, si comprende che già nel 77-78 d.C. si era a conoscenza di molti elementi inerenti alle abitudini riproduttive dei cinghiali. A testimonianza di ciò si riporta un breve estratto:
«Le femmine del cinghiale partoriscono una volta l’anno. Durante il periodo dell’accoppiamento i maschi sono molto feroci. Allora combattono fra loro e cercano di rendersi duri i fianchi sfregandoli contro gli alberi e ricoprendosi di fango’. Le femmine nel periodo della maternità diventano più feroci e questo avviene in genere per animali di ogni tipo. La riproduzione inizia per i cinghiali maschi solo ad un anno. In India le loro zanne ricurve sono lunghe un cubito; entrambe escono dal muso, e altrettante dalla fronte, come corna di un vitello. Il pelo è di colore simile al bronzo negli esemplari selvaggi, negli altri è nero. In Arabia invece non vive la specie dei suini.
In nessuna specie è tanto facile l’unione con il corrispettivo selvatico, e gli antichi chiamavano i piccoli cosi nati ‘ibridi’ o semiselvatici, appellativo che passò anche agli uomini, ad esempio a Gaio Antonio, collega di Cicerone nel consolato. Non soltanto nei maiali, ma anche in tutti gli altri animali, di qualunque specie esista l’esemplare domestico, di questa si trova anche il corrispondente selvaggio, come esistono tante razze di uomini selvaggi di cui già abbiamo parlato» [Plinio il Vecchio, Naturalis historia, II, 212].
Il simbolismo del cinghiale ha radici antichissime, essendo presente in molte tradizioni indoeuropee e, per certi aspetti, anche al di fuori di esse, a riprova che tutte le tradizioni arcaiche sono, in qualche modo, correlate, pur presentando notevoli differenze nell’àmbito delle diverse culture.
Il mito è nato dalla tradizione iperborea, nel cui àmbito il cinghiale rappresenta l’autorità spirituale, rapportandosi al ritiro solitario del druido o del brahmano nella foresta. Il suo opposto è l’orso, emblema del potere temporale. Poiché in Gallia, come in Grecia, si soleva praticare la caccia al cinghiale, esso divenne l’immagine del potere spirituale abbattuto dal potere temporale.
Nelle varie tradizioni il cinghiale viene sconfitto e ucciso, con un evidente simbolismo di sostituzione di un regno a un altro: in Cina è catturato da Yi l’Arciere; Ercole cattura il cinghiale di Erimanto; Meleagro, con l’ausilio di Teseo e Atalanta, uccide quello di Calidone. Quest’ultimo, mandato sulla terra da Ares come punizione per Adone, trovò la morte nella caccia calidonia, organizzata dal re Oineo di Calidone. Il cinghiale era stato inviato da Artemide a distruggere i campi di Calidone perché Oineo era venuto meno nelle offerte votive succedute all’eccellente raccolto calidonio trascurando la dea. Per liberarsi della belva, il re organizzò una caccia in cui chiese la partecipazione di quasi tutti gli eroi del mito greco: tra gli altri, Castore e Polluce, i Cureti, Ida e Linceo, Admeto e Atalanta (Graves, 1955).
Di questo mito scrisse Omero nel libro IX dell’Iliade:
Ella dunque, stirpe divina, l’Urlatrice, irata, gli mandò contro un feroce cinghiale selvaggio, zanna candida, che prese a conciar male la vigna d’Oineo; molti alberi alti stendeva a terra, rovesci, con le radici e con la gloria dei frutti. L’uccise Melèagro, il figliuolo d’Oineo, chiamando cacciatori da molte città e cani, ché vinto non l’avrebbe con pochi mortali, tant’era enorme, e gettò molti sulle pire odiose [Omero, Iliade, libro IX].

Meleagro e il cinghiale (copia romana in marmo, da un originale greco del IV a.C., Museo Pio-Clementino)

Meleagro e il cinghiale (copia romana in marmo, da un originale greco del IV a.C., Museo Pio-Clementino)

All’episodio dell’uccisione del cinghiale calidonio è legata anche la fondazione della città di Benevento: una leggenda narra che Benevento debba le sue origini all’eroe greco Diomede, sbarcato in Italia dopo la distruzione e l’incendio di Troia, e che avrebbe riservato per la città una zanna del cinghiale calidonio (simbolo di Benevento) ucciso da suo zio Meleagro.
Nell’àmbito della successione ciclica, il nostro ciclo di esistenza è designato, nella mitologia indù, come quello del cinghiale bianco. Il cinghiale (varâha), in questa dottrina, non rappresenta soltanto il terzo dei dieci avatara di Vishnu nel Manvantara attuale, ma il nostro Kalpa intero, cioè tutto il ciclo della manifestazione del nostro mondo, è designato come “Shweta varaha Kalpa”, ovvero “il ciclo del cinghiale bianco” (Guénon, 1962).
Il cinghiale, insomma, è portatore di un carattere iperboreo, cioè primordiale. È la personificazione di Vishnu, allorché riportò la terra alla superficie delle acque e la organizzò.
In Giappone è associato alla temerarietà e al coraggio e lo stesso dio della guerra, Usa-Hachiman, è rappresentato su di un cinghiale.
Figura, inoltre, frequentemente sulle insegne militari galliche, in particolare su quelle dell’Arco di Trionfo d’Orange e sulle monete dell’indipendenza. Quest’animale non ha alcun rapporto con la classe guerriera, anzi, quale simbolo della classe sacerdotale, le si pone in netto contrasto. Il cinghiale è, al pari di un druido, in stretto rapporto con la foresta: si nutre di ghiande di quercia, e la femmina, simbolicamente circondata da cinghialetti, scava la terra ai piedi del melo, simbolo di immortalità.
Nella tradizione celtica, spesso è confuso con il maiale (i Celti avevano branchi di maiali tenuti quasi allo stato selvatico), ma il cinghiale costituisce il cibo dei sacrifici della festa di Samain ed è animale sacro a Lug. Fra i Celti era un importante animale sacro e figure di cinghiale servivano come ornamento per elmi e scudi: la carne di cinghiale veniva posta nella tombe dei morti come viatico per dar loro la forza nel viaggio verso l’aldilà. Sculture in pietra, a Euffigenux, e in bronzo, a Neuvy-en-Sullias, in Francia, testimoniano la grande importanza di questo simbolo animale nell’Antica Europa occidentale. (Biedermann, 1989)
Ancora in riferimento alle tribù celtiche, gli Edui avevano come animale totemico il cinghiale, divenuto poi simbolo della città di Milano; probabilmente gli Edui erano, infatti, tra le popolazioni fondatrici di Milano.
In nessun caso, neanche nei testi irlandesi di ispirazione cristiana, il simbolismo del cinghiale assunse sfumature di malvagità, e in questo esiste, quindi, una profonda contrapposizione tra mondo celtico e tendenze generali del cristianesimo. Si pensi, a tal proposito, a Dürer che pone, nel presepe natalizio, il cinghiale e il leone al posto del bue e dell’asino.

Emblema della legione X Fretensis (dalla foto di Yoav Dothan, wikipedia).

Emblema della legione X Fretensis (Foto di Yoav Dothan, Wikipedia).

Nella mitologia norrena, il cinghiale era associato alla fertilità, e si può trovare spesso nell’iconografia del dio-cinghiale (Gullinbursti) insieme al dio norreno Freyr. Freyr venne poi associato, nella cristianità, a San Nicodemo da Cirò e a Sant’Antonio Abate, che, infatti, spesso è ritratto con un maiale o un cinghiale.

In generale, nelle tradizioni antiche, questo animale aggressivo che spunta impetuosamente dal sottobosco è simbolo delle intrepide schiere di guerrieri. Si ricorda anche un cinghiale come simbolo della Legio X Fretensis (dello Stretto) legione romana creata da Augusto nel 41-40 a.C. e celebre per la sua azione militare nella prima guerra giudaica (66–73 d.C.) sotto il comando supremo del futuro imperatore Vespasiano. Nel 66 questa legione si recò insieme alla V Macedonica ad Alessandria per un’invasione dell’Etiopia, pianificata da Nerone, ma, contrariamente a quanto progettato, esse furono impiegate nella soppressione della rivolta giudaica (Grimal, 1987).

Il cinghiale fu simbolo anche della Legio XX Valeria Victrix , arruolata da Augusto (dopo il 31 a.C.). Questa legione romana prestò servizio in Spagna, in Illyricum e in Germania, prima di partecipare all’invasione della Britannia nel 43; fu attiva almeno fino all’inizio del IV secolo.

Antefissa Romana raffigurante l'insegna della Legio XX Valeria Victrix.

Antefissa Romana raffigurante l’insegna della Legio XX Valeria Victrix.

Per quel che riguarda strettamente le popolazioni italiche, in particolare che si stabilirono nel Sannio, i Caudini avevano come animale totemico, nella ‘primavera sacra’, il cinghiale (Salmon, 1995). I Caudini erano una delle quattro tribù che costituivano il popolo dei Sanniti e che facevano parte della confederazione che andava sotto il nome di Lega sannitica. Fu la tribù che maggiormente risentì dell’influenza ellenica.

Vivevano ai confini della pianura campana (Monte Taburno e Monti Trebulani) nella valle dell’Isclero e lungo il fiume Volturno. I loro centri principali erano Caudium, Saticula e Telesia, ma città caudine erano anche quelle situate ad ovest del Volturno: Caiatia, Cubulteria e Trebula Balliensis (Tagliamonte, 1997).

Impavido tra gli animali, dotato di virtù guerriere per natura, il cinghiale è il simbolo del coraggio, dell’indomita capacità che accomuna uomini e animali di difendersi e, come i più nobili tra i guerrieri, di esprimere la propria volontà di sopravvivenza. Questo simbolo rappresenta una nobile e sacra visione del mondo costantemente legata al dominio spirituale e non esclusivamente suggerita da bisogni materiali. L’augurio è quello di essere guidati, in questo momento storico di profonda crisi spirituale, dalla sua forza e dal suo coraggio, per affermare finalmente la nostra volontà di preservare e tramandare i culti e le tradizioni che hanno, nei millenni, definito la fisionomia dei nostri popoli.

Bibliografia

  • Hans Biedermann, Enciclopedia dei Simboli, Milano, Garzanti Editore, 1991.
  • Richard Frankham, Jonathan D. Ballou, David A. Briscoe, Fondamenti di Genetica della conservazione, Bologna, Zanichelli, 2006.
  • Félix Rodríguez de la Fuente, Il cinghiale, Segrate (MI), Giorgio Mondadori e Associati, 1983 («I taccuini di Airone», 3).
  • Robert Graves, I miti greci, Milano, Longanesi, 1955.
  • Pierre Grimal, Dizionario di mitologia greca e romana, Flero (BS), Paideia, 1987.
  • René Guénon, Simboli della Scienza Sacra, Milano, Adelphi Edizioni, 1975 [prima ed., 1962].
  • Luca Mattioli, Federico Striglioni, Ettore Centofanti, Vito Mazzarone, Nicola Siemoni, Sandro Lovari, Guido Crudele, Alimentazione del lupo nelle Foreste Casentinesi: relazioni con le popolazioni di ungulati domestici e selvatici, in Atti del Convegno sul lupo, Parma, WWF, 1992.
  • Gaio Plinio Secondo, Storia naturale, vol. II: Antropologia e zoologia (Libri 7-11), a cura di Alberto Borghini, Elena Giannarelli, Arnaldo Marcone e Giuliano Ranucci, Torino, Einaudi, 1983 («I Millenni»).
  • Gianluca Tagliamonte, I Sanniti. Caudini, Irpini, Pentri, Carricini, Frentani, Milano, Longanesi, 1997.

 

Immagini

  • in testata: Scena di caccia al cinghiale (sarcofago di Altıkulaç, IV sec. a.C. – Çanakkale, Turchia – part. da una foto di Dan Diffendale)
  • in evidenza: Caccia al cinghiale (Jan van der Straet, Venationes ferarum, avium, piscium, pugnae bestiariorum et mutuae bestiarum […], Anversa, Philippe Galle, 1602).



Potnia Theron, Signora degli animali: la visione arcaica del femminile

Potnia Theròn (termine che deriva dal greco Ἡ Πότνια Θηρῶν, ovvero Signora degli animali) è un epiteto adottato per la prima volta da Omero («[…] Signora delle belve, Artemide selvaggia […] Iliade, libro XXI, v. 470) per descrivere una caratteristica di Artemide e successivamente impiegato per definire molte divinità femminili legate agli animali sui quali esse erano in grado di esercitare il loro potere.

Come la sua danza e la sua bellezza appartengono al fascino e allo splendore della libera natura, così anch’ella è intimamente legata con tutto ciò che vive, con gli animali e le piante. Artemide è la Signora delle belve feroci, ma corrisponde pure allo spirito della natura che ella si prenda cura di loro come una madre, per poi giuliva cacciatrice inseguirle col suo arco. Walter Otto, Gli Dei della Grecia, 1929

Sono state elaborate ipotesi sulla presenza, in periodo arcaico, di una religione originaria di impronta matriarcale, in cui le figure femminili legate a un culto della Dea Madre fossero predominanti.
Il principio matrilineare, che l’antropologo svizzero Johann Jakob Bachofen riconobbe in un primo momento presso l’antico popolo anatolico dei Lici, originò una società matriarcale, predisposta alla tolleranza e alla pace. Questa società, principalmente agricola, si espresse sul piano religioso, con un’iconografia associata spesso a figure divine quali le Dee-madri e le divinità lunari. Bachofen raccolse meticolosamente tutte le manifestazioni che caratterizzarono questo periodo da quello che, successivamente, secondo il filosofo Julius Evola, lo avrebbe soppiantato, vale a dire il patriarcato.

Le vedute di Bachofen, in molti punti valide, sono da integrare laddove, prendendo per riferimento e supponendo come originario e più antico elemento quello legato alla Terra e alla Madre, prospettano qualcosa come un’evoluzione spontanea dall’inferiore al superiore, laddove si tratta di incroci tra inferiore (Sud) e superiore (elemento iperboreo). Storicamente la religione con culti matriarcali non è originaria, ma è già prodotto di trasformazione. Evola, Rivolta contro il mondo moderno, La Civiltà della Madre

L’opposizione tra matriarcato e patriarcato, secondo Evola, non può essere intesa come successione di diverse fasi di uno stesso processo evolutivo nella storia umana. L’etnologia, infatti, avrebbe permesso di relazionare il matriarcato alle popolazioni preindoeuropee o non-indoeuropee, e il patriarcato, invece, al mondo indoeuropeo. Bachofen, secondo Evola, non era arrivato a cogliere questo legame in quanto deviato dalle idee evoluzionistiche. Bachofen aveva però avuto il merito di mettere in luce che al termine di un periodo storico possono manifestarsi forme degenerative capaci di riportare le condizioni, temporaneamente, alla fase precedente (Bachofen, 1949).
La teoria che ipotizzava una società originaria matriarcale fu ripresa anche dall’archeologa Marija Gimbutas nel suo testo fondamentale: Il linguaggio della dea.
Gimbutas nell’Introduzione scrive: «Le credenze delle popolazioni agricole riguardo sterilità e fertilità, la fragilità della vita e la costante minaccia di distruzione, e il periodico bisogno di rinnovare i processi generativi della natura sono tra le più durature. Continuano a vivere nel presente, così come gli aspetti arcaici della Dea preistorica, nonostante il continuo processo di erosione dell’era storica. Trasmesse da nonne e mamme della famiglia europea, le antiche credenze si sottrassero al processo di sovrapposizione dei miti indoeuropei e infine di quelli cristiani. La religione incentrata sulla Dea esisteva molto prima di quelle indoeuropea e cristiana (che rappresentano un periodo relativamente breve della storia umana), lasciando un’impronta indelebile nella psiche occidentale.»
Nel libro, i simboli della Dea sono raggruppati in quattro temi fondamentali: ‘Dispensatrice di vita’, ‘Terra eterna che si rinnova’, ‘Morte e Rigenerazione’, ‘Energia e Sviluppo’.

La prima categoria comprende la sfera acquatica, ad individuare la credenza predominante che tutta la vita provenga dall’acqua; della ‘dispensatrice di vita’ l’immagine simbolica è quella del corpo gravido della Dea. Hanno grande importanza, inoltre, in questo significato, i seni, i glutei, il ventre gravido e l’organo genitale femminile, che viene scolpito anche su sassi e pietre. Gli animali associati alla Signora, in questo tema, sono l’orsa, la cerva, il daino, il bisonte e le sue corna, la giumenta (Percovich, 2012).
Alla seconda categoria di significato, quello connesso alla ‘Terra che si rinnova’, corrisponde una diversa fase delle civiltà umane: il Neolitico agricolo e sedentario, che esprime l’arte della ceramica. La madre in questo quadro storico è più snella e compaiono le prime forme maschili della divinità, rappresentate come spirito della vegetazione che ciclicamente nasce e muore. Inizia l’addomesticamento degli animali: nell’Europa sudorientale, il primo animale addomesticato fu con molta probabilità l’ariete, che diede la possibilità di impiegare il suo pelo per ricavare tessuti. A questo periodo può essere fatta risalire l’invenzione della tessitura. Unita alla tessitura, si manifesta la rappresentazione della Signora come ‘Tessitrice’, immagine che darà origine alle Parche. La Dea viene, in questo nuovo contesto iconografico, abitualmente associata alla scrofa, per la sua maggiore fertilità e prolificità. Collegata ai cicli agricoli, ha origine una rappresentazione ctonia della divinità, vista come Dea della Vegetazione che si cela al di sotto della terra, luogo in cui la vita cova, come in un’opera al nero, per poi riemergere, rinascere ed esprimersi nuovamente in condizioni climatiche e ambientali favorevoli. Questa visione è all’origine di numerosi miti, tra cui ricordiamo quello mediterraneo della divinità ctonia Persefone, o Kore (dal greco Κόρη, giovinetta, fondamentale nei Misteri Eleusini.

Pinax che ritrae Persefone che apre la cesta mistica (λίκνον μυστικών) (Locri, V sec. a.C. – Museo archeologico nazionale di Reggio Calabria).




Il figlio generato dalla madre è analogo alla vegetazione generata dalla madre ctonia; si iniziano a vedere, quindi, le prime rappresentazioni sacre del maschile, quando il figlio, come la vegetazione nuova che rinasce, diviene Dio della Vegetazione.
La terza categoria è quella della ‘Morte e Rigenerazione’. Alla fine del Neolitico, secondo la Gimbutas, nell’Età del Bronzo, successivamente all’arrivo dei kurgan, comparve un nuovo animale in associazione con la Dea, l’avvoltoio. Si ritrova negli strati intermedi di Çatal Hüyük come in Egitto, e rappresentava ‘colei che annuncia la morte’, intesa come passaggio necessario per una nuova rigenerazione. Associate all’immagine della Dea compaiono ora anche le zanne di cinghiale, che hanno il potere di dare la morte: il cinghiale, infatti, è visto come un animale pericoloso, con capacità di uccidere. Un altro simbolo ricorrente è quello della Dea civetta: la civetta, in quanto uccello notturno, era ritenuta annuncio di morte. Ma esistono numerose altre associazioni: l’utero è associato al bucranio – lo scheletro della testa del bue che spesso ornava le metope dell’ordine dorico (ancora a Çatal Hüyük) -, al pesce, alla rana, al rospo, al porcospino e persino alla tartaruga.
Infine, il tema dell’ ‘Energia e dello Sviluppo’ riguarda un ampio insieme di simboli che potrebbe essere visto come appartenente al continuo e incessante fluire del tempo ciclico. Alla Dea sono associati, quindi, simboli dinamici di energia come la spirale – la cui diffusione è universale -, corni o falci di luna, asce, itifalli – simulacro del fallo in erezione, simbolo della fecondità, spesso portato in processione nelle falloforie, un rituale associato al culto di Dioniso – , l’immagine del serpente ripetuta infinite volte, vortici e croci.
Andando al di là dell’analisi iconografica e mitologica delle rappresentazioni femminili del divino, l’ipotesi di questo scomparso potere femminile è stata proposta da Marija Gimbutas, supportata da un’impressionante testimonianza archeologica (Gimbutas, 1989).

Analizzando circa duemila manufatti preistorici, la studiosa ha immaginato l’esistenza di un’organizzazione sociale precedente al patriarcato, contrassegnata dal ruolo predominante delle donne, in veste di capi clan o di  sacerdotesse. Questa società, esistita in Europa tra il 7000 e il 3500 a.C., ha lasciato, secondo la Gimbutas, manufatti (modellini di templi, graffiti, tombe, sculture, vasi), custodi di un corpus di simboli dal quale sarebbe lecito pensare ad uno scenario nel quale avrebbe comandato una Grande Dea.

Serbona (Harappa, India, valle dell’Indo, 2600-2400 a.C.)

Serbona (Harappa, India, valle dell’Indo, 2600-2400 a.C.)

La Grande Dea, però, a differenza della Grande Madre, non sarebbe soltanto una rappresentazione della fecondità, ma dei quattro aspetti analizzati in precedenza. Essa rifletterebbe un ordine sociale nel quale le donne avrebbero rivestito un ruolo al vertice della gerarchia sociale e politica, senza, però, alcuna sottomissione degli uomini. Non vi sarebbe stato un  matriarcato o un patriarcato bensì  una ‘gilania’, parola ideata da Gimbutas fondendo le radici greche gy (donna) e an (uomo), unite da una “l” centrale, a sottolineare il ‘legame’ tra i due elementi sessuali dell’umanità. Tra il 4300 e il 2800, all’incirca, però, le incursioni dei Kurgan, che addomesticavano il cavallo e costruivano armi, avrebbero rappresentato la fine della vecchia cultura europea, modificandola da gilanica ad androcratica e da matrilineare a patrilineare, e mutando, fino a questo momento, il corso della storia.
Nello scenario storico ricostruito dalla studiosa Gimbutas, le tribù patriarcali indoeuropee dei Kurgan avrebbero ‘imposto’ i loro costumi, i loro valori e le loro regole alle pacifiche popolazioni preindoeuropee, sino a quel momento gilaniche. (Cantarella, 1985) Risulta difficile pensare che i ritrovamenti archeologici proposti siano testimonianze attendibili e indiscutibili di siffatta teoria.
Il rimando è, soprattutto, a Dumézil e alla sua teoria dell’ideologia tripartita degli indoeuropei (Dumézil, 1958), secondo la quale la società indoeuropea potrebbe essere divisa in tre classi: quella dei sacerdoti, quella dei guerrieri e quella dei produttori. Eva Cantarella, antropologa studiosa di miti, nota che, ovviamente, non esistono basi documentarie sufficienti per ricostruire la cultura indoeuropea, motivo per cui, a maggior ragione, non è possibile ricostruire in modo scientificamente attendibile addirittura la cultura preindoeuropea. I manufatti che la Gimbutas porta a sostegno delle sue teorie sono indiscutibilmente concreti, ma una storia scritta sulla base della loro testimonianza non può dirsi altrettanto concreta. È necessario infatti allargare il campo dell’archeologia descrittiva ad altre discipline, come la mitologia comparata, la linguistica, il folklore, l’etnografia e l’etnozoologia.
Con ogni probabilità, pensare, come in un sogno femminista, una società arcaica in cui il potere femminile si era stabilito come predominante su quello maschile, in un mondo pacifista ed ecologista, come quello immaginato dall’archeologa Gimbutas, serve più che altro a trovare in esso conforto e speranza.  Talvolta si pensa che chi dubita della storicità del potere femminile sia antifemminista, antipacifista o antiecologista ma, in questo modo, si confonde il piano delle ideologie con quello della dimensione storica e soprattutto religiosa. La dominanza di una figura femminile nella religione, inoltre, non comporta necessariamente l’esistenza, in una società, di un potere politico femminile.

Anahita, Dea dell’acqua, della fertilità, patrona delle donne e Dea della guerra (Persia, attuale Iraq)

Molti studiosi di religione hanno messo in discussione l’esistenza di un monoteismo nella religione cretese, ipotizzando la possibilità che, accanto alla Potnia, esistessero divinità maschili. In queste società arcaiche la donna aveva, probabilmente, una posizione sociale elevata: infatti, nella religione minoica le donne rivestivano il ruolo di sacerdotesse ed erano socialmente privilegiate. Inoltre, partecipavano a spettacoli e cacce, come testimoniano affreschi e iconografia. Le donne godevano certo di libertà e nei palazzi la parte destinata alle donne non era separata. (Cantarella, 1985) Non ci sono testimonianze, però, del fatto che la successione ereditaria avvenisse per linea materna. Non esiste, quindi, prova dell’esistenza di un matriarcato, ma esistono, invece, elementi che indicano libertà, dignità ed elevata posizione sociale delle donne.
È opportuno chiarire, quindi, che nella rappresentazione simbolica e nell’iconografia religiosa, quando si identifica una divinità femminile come Dea Madre, significa che la sua fertilità è in qualche modo legata alla natura e ai cicli naturali che ne rappresentano l’equilibrio. La fertilità può quindi esprimere una qualità della terra stessa, per esempio, nel senso di fertilità del terreno, oppure può riferirsi alla coltivazione dei prodotti agricoli o alla vita delle piante, ma anche alla fecondità degli animali, così come degli esseri umani, riferendosi all’accoppiamento o ai rapporti sessuali.
Esiste infatti una confusione tra la Dea Madre e la Dea della Terra (o Madre Terra).
L’elemento conduttore rintracciabile tra le diverse caratteristiche della Dea Madre è la sua forza primordiale, sorgente della vita, ma si può facilmente osservare come, in realtà, evidenti rimandi a un culto maternale siano ben presenti anche in periodo greco-classico, ma con una sorta di “separazione” delle caratteristiche ataviche proprie del culto della Dea e di attribuzione a divinità diverse, discendenti dall’originale  e portatrici di una sola caratteristica per ognuna di loro (Lloyd, 2009).
A Gea venivano attribuite le caratteristiche proprie del culto della Dea della Terra in senso stretto, a  Rea, o “mater deorum”, si riconduce la figura maternale a un livello primigenio del sacro; Cibele, che personifica l’aspetto generativo dell’atto sessuale, il suo rituale d’accoppiamento, è legata all’immagine del rinnovamento delle stagioni della natura; infine Demetra ricongiunge in sé le caratteristiche del nutrimento (come Dea del grano), della cura parentale e della fertilità naturale.
Esiste quindi un nucleo originario della sacralità femminile che è andato differenziandosi in relazione alle caratteristiche geografiche, etniche e religione delle diverse civiltà.

Da quanto possiamo comprendere, PO-TI-NI-JA o “Potnia” risulta essere più un’attribuzione che un vero e proprio nome: il significato sarebbe stato “signora” o “padrona” e, in sostanza, si sarebbe trattato di un esempio classico di “Dea Madre”.
Nelle tavolette di Cnosso e Pilo l’appellativo Potnia è spesso associato a diversi epiteti; difficile dire se questi epiteti specificassero diverse divinità o fossero soltanto attributi della stessa Dea. In particolare, a Cnosso si possono ritrovare le seguenti descrizioni:

Artémis Ortheia Dea di Sparta (Sparta 660 a.C.)

Artémis Ortheia dea di Sparta (Sparta 660 a.C.)




– A-TA-NA PO-TI-NI-JA (Atana Potnia);
– DA-PU-RI-TO-PO-JO-NI-TI (“Signora del Labirinto”);
– (PO-TI-NI-) JA A-SI-WI-JA (Potnia Aswia).

A Pilo, invece, si possono rinvenire queste altre attribuzioni:
– PO-TI-NI-JA I-QE-JA (Potnia Hikkweia o “Signora dei cavalli”);
– PA-KI-JA-NI-JA (forse Potnia  Sphagianeia);
-A-SI-WI-JA (ancora Potnia Aswia);
– PO-TI-NI-JA NE-WO-PE-O;
– MA-TE-RE TE-I-JA (Theia Mater, letteralmente “madre divina”, che è la prova più certa di un culto maternale in epoca arcaica). (Christ, 1998)

La Potnia Theron è, in ogni caso, spesso rappresentativa soprattutto dell’arte minoica e di quella micenea. Conosciuta come “Signora delle cose selvagge”, “Signora delle fiere”, “Signora della montagna” veniva denominata anche Britomarti (letteralmente “dolce fanciulla”) o con molti altri epiteti simili. Nella mitologia greca, Britomarti di Cortina, figlia di Latona, affiancava Artemide nella caccia e Minosse ne era innamorato. Artemide rese divina Britomarti con il nome di Dictinna (da dictyon, o rete), ad Egina venne chiamata Afea e a Cefalonia fu ricordata come Lafria.

Britomarti – particolare di una pittura vascolare di un’anfora da Tebe – VII secolo a.C.

Britomarti – particolare di una pittura vascolare di un’anfora da Tebe – VII secolo a.C.

Come Dea degli animali selvatici e domestici, Potnia aveva la facoltà di controllare le forze naturali e di sottometterle, a suo piacimento e,  nelle zone mediorientali, la Signora degli animali è sovente ritratta nuda, insieme ad animali che spesso tiene vicino impugnandoli con entrambe le mani per le orecchie, per la gola o per le zampe. Talvolta viene raffigurata in piedi sul dorso di uno di essi: il significato è associato alla capacità di sottomettere le forze più indomite della natura.

Una testimonianza italica fondamentale e che può essere vista quale rappresentazione di Potnia Theron è senza dubbio la Dea Angizia (in latino Angitia o Angita, da anguis, serpente; in peligno Anaceta), divinità presente nei culti dei Marsi, dei Peligni e di molti altri popoli osco-umbri, sempre legata all’immagine dei serpenti.

Statua in terracotta della Dea Angizia (Museo Paludi di Celano)

Statua in terracotta della dea Angizia (Museo Paludi di Celano)

Ma è bene ricordare che i serpenti hanno sempre avuto un nesso con le arti curative e, per questo motivo, Angizia era probabilmente anche una divinità della guarigione; d’altra parte, i Marsi la ritenevano più una maga che una dea, attribuendole la conoscenza dell’uso delle erbe curative, in particolar modo di quelle che fungevano da antidoto per i morsi di serpente.
La dea Angizia era molto diffusa in vaste zone dell’Italia centro-meridionale e le cerimonie che si svolgono a metà primavera in questi luoghi rivelano l’esistenza di precedenti riti pagani, propiziatori della fertilità.
Pressi i Sanniti era conosciuta come Anagtia, e in Aesernia le veniva riservato l’appellativo di diiviia. Esiste una corrispondenza tra questa Dea italica e la divinità iranica Anahita o Anchita, consorte di Mitra, e la dea assira Ištar, anch’essa Dea della fecondità. Echi dei riti associati al culto di Angizia sono rintracciabili nella odierna Festa dei serpari a Cocullo (AQ), adesso dedicata a san Domenico, che deriva appunto dall’originaria festa pagana in onore di Angizia. Gli ofidi che vengono raccolte durante la Festa dei serpari, e che sono quindi probabilmente legati al culto di Angizia, sono: il cervone (Elaphe quatuorlineata (Bonnaterre,1790), il saettone (Zamenis longissimus Laurenti, 1789), la biscia dal collare (Natrix natrix Linnaeus, 1758), il biacco (Hierophis viridiflavus (Lacépède, 1789)).

Un’altra importante divinità italica associata alla Signora è la Dea Mefite. Il suo nome  è senza dubbio osco, per la presenza della caratteristica -f- intervocalica. Riguardo ai significati attribuiti a questo nome possono essere citati “medio-dluitis”, donde “mefifitis” e quindi Mefitis, cioè “colei che fuma nel mezzo” oppure da “Medhu-io” cioè “colei che si inebria” o ancora, molto più probabilmente, “colei che sta nel mezzo”, ovvero entità intermedia fra cielo e terra, fra morte e vita. La sua funzione era quindi quella di presiedere il passaggio e di tutelare i patti.
Gli scrittori antichi e i rinvenimenti archeologici ne testimoniano l’esistenza in Irpinia a Rocca San Felice e Frigento, nella Valle d’Ansanto e a Casalbore, in Lucania a Rossano di Vaglio e Grumentum, a Casalvieri (in località Pescarola), a Casalattico (in località San Nazario), nella Valle di Canneto a Settefrati, al crocevia fra Molise, Lazio e Abruzzo, e a San Donato Val di Comino.

Mefite Valle d’Ansanto (Fonte: www.infoirpinia.it)

Mefite Valle d’Ansanto (Fonte: www.infoirpinia.it)




Nelle culture italiche si credeva molto agli effetti dei malefici e per annullarli si sacrificavano animali alle divinità che abitavano questi luoghi sacri; molti animali venivano uccisi e offerti alla Dea Mefite. Le aree delle esalazioni mefitiche erano così considerate luoghi sacri.
Un aspetto ancora in parte oscuro è relativo al nesso tra questo culto e il rito di transizione della transumanza, il passaggio delle greggi ai nuovi pascoli stagionali. Questa ipotesi di collegamento è rafforzata dal fatto che lungo i percorsi tratturali sono state rinvenute antiche aree sacre dedicate alla Dea Mefite (Monaco, 2000).

Civiltà etrusca, VII sec. a.C. Ritrovamento: Graeckwyl, Switzerland.

Civiltà etrusca, VII sec. a.C. Ritrovamento: Graeckwyl, Switzerland.


La primordiale Potnia Theron esprime le corrispondenze divine tramite le espressioni iconografiche di Mefite, Angizia, Diana e di molte altre, ma è, per sua funzione, immagine di una religiosità che riserva un posto fondamentale all’elemento femminile, che ha diversa funzione, ma non minore importanza di quello maschile. Il Divino è equilibrio tra maschile e femminile, tra forma pura e materia pura, e da questo equilibrio divino discende quello umano. L’allontanamento da questo ordine, tipico invece dei monoteismi attualmente più diffusi nel mondo, sia occidentale che orientale, che hanno escluso totalmente l’elemento femminile – o lo hanno declassato -, produce una deformazione della società, una caduta della donna verso un ruolo marginale, degno di minor rispetto e venerazione. Da una donna divinizzata, vista come fonte dell’intera vita del cosmo, nelle società moderne, si passa ad una donna produttrice, che tenta certo di rivendicare i suoi diritti sociali, o politici, ma che ha perso definitivamente la sua collocazione religiosa e divina.

La Signora degli animali è, quindi, immagine di una divinità espressione della forza primordiale, della potenza istintiva, della vita selvatica dei boschi, e, risalendo alle origini, essa non è assimilabile a un concetto agricolo o materno dell’elemento femminile, espresso più dalla Dea Madre o dalla Demetra del grano. Potnia Theron trova invece la sua manifestazione nella natura selvaggia e primordiale, che convive con gli animali da caccia, le belve feroci e la vegetazione spontanea. Le civiltà che esprimevano una siffatta immagine delle forze divine della terra e riuscivano a comprendere che la materia, senza la forma impressa da una divinità, non poteva essere dominata dall’uomo, erano lontane dalle forme di “progresso”concepite dalla modernità, ma sicuramente più elevate nelle loro espressioni religiose e metafisiche, perché vedevano la Natura così come riusciva a percepirla Giordano Bruno sostenendo che «Natura est deus in rebus». Il mondo moderno è ancora capace, nella sua apparente religiosità, di avere la stessa percezione del Divino?



Bibliografia

  • Alan B. Lloyd, What is a God?: Studies in the Nature of Greek Divinity, Classical Press of Wales 2009, pp.36 ss.
  • Johann Jakob Bachofen, Das Mutterrecht. Eine Untersuchung über die Gynäkokratie der alten Welt nach ihrer religiösen und rechtlichen Natur, 2 voll., Basel 1861 (tr. it.: Il matriarcato. Ricerca sulla ginecocrazia nel mondo antico nei suoi aspetti religiosi e giuridici, 2 voll., Torino 1988).
  • Johann Jakob Bachofen, Le madri e la virilità olimpica (a cura di J. Evola), Edizioni di Ar, Padova, 2009.
  • Eva Cantarella, L’ambiguo malanno. Condizione e immagine della donna nell’antichità greca e romana, Feltrinelli, Roma 1985.
  • Eva Cantarella, Le donne e la città, New Press, Treviso, 1985
  • Carol P. Christ, Rebirth of the Goddess: Finding Meaning in Feminist Spirituality, Routledge 1998.
  • Giacomo Devoto, Gli antichi Italici, 2ª ed., Firenze, Vallecchi, 1951.
  • Julius Evola, Rivolta contro il mondo moderno, Edizioni Mediterranee, 1998.
  • Marija Gimbutas, The Goddesses and Gods of old Europe, 7000-3500 B.C. Myths, legend and cult images, Berkeley-Los Angeles, 1982.
  • Marija Gimbutas, The language of the Goddess, London 1989 (tr. it.: Il linguaggio della Dea. Mito e culto della Dea Madre nell’Europa neolitica, Milano 1990.
  • Walter Otto, Gli Dei della Grecia, tr. it. di Giovanna Federici Airoldi, Adelphi, Milano, 2004.
  • Luciana Percovich, “All’inizio erano le madri. Le radici gilaniche dell’Europa Antica nel lavoro di Marija Gimbutas”, in Etologia ed Etica, Filosofia e Saperi/5, CNR, Aracne Editrice S.r.l., Roma, 2012, p.189.

Sitografia

  • Sanniti – www.sanniti.info/mefite.html [a cura dell’ Arch. Davide Monaco]
  • Il sito dedicato alla storia di Carife – carife.eu/wordpress/?page_id=341

Immagini

  • in testata: Tiziano, La morte di Atteone (1559-75 ca. – The National Gallery, Londra).
  • in evidenza: Potnia Theron, statuetta proveniente da Cnosso.



Presagi interiori: l’extispicio

Affrontare un discorso sulla religione degli Etruschi è compito alquanto complesso, in quanto, come ogni civiltà antica, essa è fulcro per la stabilizzazione di una vita armoniosa all’interno della comunità.

La maggior parte dei momenti fondamentali della vita in società si basava su specifiche ritualità, imposte proprio dalla religione. Essa si caratterizzava per una molteplicità di aspetti che andavano a comporre il quadro dell’ideologia religiosa che fa da sfondo allo sviluppo della civiltà etrusca. Conosciamo poco, nostro malgrado, della cosiddetta disciplina etrusca, ovvero dell’insieme di norme che erano alla base dell’ideologia religiosa degli Etruschi, in quanto mancano attestazioni scritte direttamente riconducibili ad autori etruschi. Le fonti che trattano questi argomenti sono molto più tarde, infatti le prime testimonianze sono presenti in passi di Plinio il Vecchio, Seneca e Cicerone. Tutti e tre gli autori si soffermano su uno degli aspetti fondamentali della religione etrusca, cioè le tecniche divinatorie, volte a scoprire il volere delle divinità. Tra le più sviluppate c’erano l’interpretazione dei fulmini, appositamente normalizzata nei Libri fulgurales, dei quali ci parlano Plinio il Vecchio e soprattutto Seneca, e l’indagine delle viscere delle vittime sacrificali, chiamata appunto extispicium dai Romani (da exta ‘viscere’). Per quanto concerne quest’ultima, sappiamo che non tutte le viscere erano considerate ominales, cioè portatrici di un presagio. Gli organi che erano esaminati dall’aruspice (in etrusco netshvis) erano il fegato, la milza, il cuore e i polmoni; ma non avevano tutti la stessa importanza. Per quanto riguarda il cuore, sappiamo che in Etruria si cominciò a esaminarne le caratteristiche solo in seguito alla partenza di Pirro dall’Italia (ca. III sec. a.C.). Per ciò che attiene ai polmoni, Seneca scrive che essi potevano rovesciare il responso ottenuto dalla consultazione di altri organi. L’organo che aveva maggiore importanza nell’indagine era certamente il fegato: da qui il fatto che spesso l’extispicio è definita anche epatoscopia.

Il primo a trarre auspici dagli uccelli fu Care, che dette il nome alla Caria; Orfeo aggiunse quelli tratti dagli altri animali.Plinio VII, 203

Fegato di pecora (di C. Michael Gibson) 1) lobo destro; 2) lobo sinistro; 3) lobo caudato; 4) lobo quadrato; 5 arteria epatica e vena porta; 6) linfonodi epatici; 7) cistifellea.

Fegato di pecora (foto di C. Michael Gibson)
1) lobo destro; 2) lobo sinistro; 3) lobo caudato; 4) lobo quadrato; 5) arteria epatica e vena porta; 6) linfonodi epatici; 7) cistifellea.

Del fegato venivano considerati il colore, la consistenza e soprattutto le dimensioni complessive e delle sue parti; le più significative erano il lobo caudato (lobus caudatus o caput iocineris) e la cistifellea (vesica fellea). Se in un fegato mancava il caput iocineris, se ne ricavava un responso funesto; se, invece, esso presentava dimensioni maggiori del normale, se aveva grandezza doppia (caput duplex) o se presentava un’apofisi dorata, ne derivava un presagio estremamente positivo.
L’epatoscopia è un’arte in cui gli Etruschi eccellevano e di ciò abbiamo testimonianza nella produzione figurata.
Sul retro di uno specchio proveniente da Vulci e databile alla fine del V sec. a.C. vi è la rappresentazione di un aruspice alato che, coperto solo in parte da un mantello e con una gamba appoggiata su una roccia, esamina un fegato; la didascalia onomastica Chalchas riporta all’indovino omerico Calcante, ma l’aggiunta delle ali è un attributo etrusco spiegabile con la sua capacità di avvicinarsi agli Dei.

Specchio proveniente da Tuscania (III sec. a.C.)

 

Su un altro specchio proveniente da Tuscania e databile al III sec. a.C. è rappresentato Pava Tarchies, un giovane in veste di aruspice che, abbigliato con ampio mantello e copricapo a punta e sempre con una gamba appoggiata su una roccia, sta esaminando un fegato all’interno di un gruppo di personaggi, uno dei quali è chiamato Tarchunus. È probabile che si tratti dell’iniziazione alla dottrina delle cose occulte di Tarconte, l’eroe eponimo di Tarquinia, da parte di Tagete, profeta al quale è legata la rivelazione della disciplina etrusca.

Fegato di Piacenza

 

L’oggetto archeologico di maggiore interesse per questo settore è il modellino bronzeo di fegato ovino, databile agli inizi del I sec. a.C. e ritrovato nei pressi di Piacenza, città dove attualmente è conservato. La superficie convessa del modellino è divisa in due lobi, uno dedicato a Usil, il Sole, e l’altro dedicato a Tivr, la Luna. La parte piatta della superficie è divisa in quaranta caselle, ognuna delle quali è occupata da uno o più nomi di divinità. Sedici di queste, di forma rettangolare, sono distribuite lungo il margine. La divisione in sedici sezioni corrisponderebbe alla divisione del cielo riportata dalle fonti: tracciate due linee ideali in senso nord-sud ed est-ovest, si ottengono quattro quadranti, ciascuno dei quali è a sua volta diviso in quattro sezioni; ognuna di esse è sede di divinità, quelle a oriente sono considerate favorevoli, mentre quelle a occidente sono considerate sfavorevoli. Nonostante ciò, non è possibile stabilire una corrispondenza precisa tra le divinità delle sedici sedi della tradizione letteraria e quelle delle sedici sezioni periferiche del fegato di Piacenza.

Modello anatomico babilonese del fegato di pecora (XIX sec. a.C.)

 

È noto che l’epatoscopia fosse una tecnica divinatoria diffusa già molti secoli prima tra le civiltà che si svilupparono nel bacino del mar Mediterraneo, in particolare nell’area del Vicino Oriente, soprattutto nel Regno di Babilonia e nell’Impero di Khatti o Ittita. Ma il rapporto tra l’epatoscopia di questi popoli e quella degli Etruschi non va al di là dell’utilizzo dello stesso organo da consultare durante le indagini.

 

Bibliografia

  • Gilda Bartoloni, Introduzione all’etruscologia, Milano, Hoepli, 2011.
  • Camporeale Giovannangelo, Gli etruschi. Storia e civiltà, Torino, UTET, 2011.
  • Gaio Plinio Secondo, Storia naturale, vol. II: Antropologia e zoologia (Libri 7-11), a cura di Alberto Borghini, Elena Giannarelli, Arnaldo Marcone e Giuliano Ranucci, Torino, Einaudi, 1983 («I Millenni»).

 

Immagini

  • in testata: scena sacrificale dal tempio di Giove capitolino (dal 1808 al Louvre).
  • in evidenza: retro di uno specchio proveniente da Vulci (fine V sec. a.C.).