Il simbolismo del lupo e la Primavera Sacra dei popoli italici

Il sofista greco Zenobio (II sec. d.C.) scriveva: “Il lupo è sempre sotto accusa, colpevole o meno che sia.” Mai espressione fu tanto efficace per descrivere il rapporto che venne a stabilirsi tra l’uomo e il lupo, quando si perse il rispetto che le popolazioni europee antiche avevano nei suoi confronti.
Il lupo (Canis lupus Linnaeus, 1758) è un mammifero placentato appartenente all’ordine dei carnivori, alla famiglia dei canidi, con adattamenti tipici dell’ordine, funzionali alla predazione di animali selvatici, anche di grossa taglia. È una specie molto territoriale, elusiva e con un comportamento sociale complesso e per certi versi ancora poco conosciuto.
Il lupo aveva un ruolo fondamentale nella mitologia scandinava, in particolare nel mito di Tyr e Fenr, in cui incarnava il simbolo delle forze oscure, primordiali, che intaccano, corrompono e dissolvono il mondo. In questa visione cosmogonica, le potenze fondanti questo mondo sono anche quelle che possono portarlo alla rovina. La tradizione indiana raffigura questo concetto in Shiva che incarna la costruzione e la distruzione. L’età del lupo, equivalente scandinava dell’età del ferro greca, del Kali Yuga, l’epoca indiana dei conflitti, è l’ultima età, quella in cui soltanto particolari caratteristiche negative associate alla figura del lupo dominano il mondo: la voracità, intesa come corruzione della materia, l’instabilità e l’individualismo. Ma il simbolismo del lupo è molto più complesso, perché presenta un lato distruttivo e uno costruttivo, associato a una rinascita. Con la distruzione di cui può essere artefice, il lupo provoca una metamorfosi, un passaggio da uno stato a un altro. La funzione che assume è quella di guardiano di una simbolica soglia e di animale psicopompo, cioè di guida delle anime. Il lupo non è soltanto distruttore, ma anche guida. Naturalmente la sua funzione è quella di condurre soltanto chi se ne dimostrerà degno. Il lupo, infatti, oltre a essere spesso associato alle tenebre – il che avviene più frequentemente nelle sue rappresentazioni moderne – è sovente legato a divinità luminose, come Apollo, definito lukogenès, ossia ‘nato da lupo’. Anche Zeus è spesso soprannominato lukios, cioè ‘a forma di lupo’. Il termine greco designante il lupo, lukos è affine a lyké, vale a dire ‘luce’. Inutile sottolineare l’immediato richiamo alla figura del dio latino Lucifer o del Lucifero gnostico e biblico. In una leggenda turca si diceva che un lupo-guida, figlio della luce, intervenisse a fianco di Oghuz, antenato dei Selgiuchidi e degli Ottomani [Levalois, 1988].

Il lupo è sempre sotto accusa, colpevole o meno che siaZenobio II sec. d.C.

In ogni caso, si può asserire che, in un percorso iniziatico, il lupo corrispondesse alla presa di possesso di una forza il cui impiego può parimenti essere distruttore e costruttore. Il simbolismo del lupo è essenzialmente un simbolismo guerriero. Se costui conduce, funge da scorta, protegge nel corso di una marcia pericolosa, spesso non sa dare l’indicazione della giusta direzione da seguire. È quindi necessario che la sua azione venga direzionata e canalizzata ed è per questo motivo che spesso al simbolo del lupo è associato quello dell’aquila, simbolo della sovranità, dell’autorità del Centro, nella sua facoltà di fissare il Sole e di sfuggire all’attrazione esercitata dalla Terra [Evola, 1978].

Foto di Antonio Iannibelli, 2008.

Foto di Antonio Iannibelli, 2008.

Il lupo è anche simbolo di fecondità: in Europa è soprattutto la lupa a simboleggiare questo aspetto. È una lupa, infatti, ad allattare Romolo e Remo. Nella mitologia greca, Latona si tramuta in lupa prima di partorire Apollo e Artemide. Però, quando si tratta di una lupa, è sempre presente un principio maschile, sotto forma di uccello. Ne è un esempio il picchio, di cui parla Plutarco in De Fortuna Romanorum, uccello profetico consacrato a Marte, che aiuta la lupa ad allevare Romolo e Remo e che li protegge. La tradizione turca afferma che K’oun-mo, re dei Wou-Souen, abbandonato subito dopo il parto, sia stato nutrito da una lupa e da un corvo. Senza troppo allontanarci geograficamente, e tornando al mito romano, la lupa fu qualificata come mater Romanorum, questo a dimostrare che la lupa trasmise ai gemelli, in un inizio di ciclo, una forma interiore, uno stile. Ma questo inizio non fu l’unico, perché il lupo, nella sua rappresentazione maschile, con tutto il carico di simbolismo guerriero, rappresentò l’animale guida per tre tribù dell’Italia antica, che ebbero questo fiero animale come loro capostipite ancestrale: la prima è quella degli Irpini, il cui nome deriva dall’osco hirpos, che significa lupo, una popolazione sannitica che, secondo le fonti antiche risalenti agli scritti di Strabone, Livio e Festo, sarebbe stata guidata, in un Ver Sacrum, da un lupo [Salmon, 1995]; la seconda è quella dei Lucani che, secondo Plinio, avrebbero avuto un condottiero di nome Lucius, che, appunto, portava il nome del dio lupo Apollo lukeios – a testimonianza di questo legame con il lupo, i Lucani batterono delle monete sul cui retro compariva una testa di lupo con la scritta lukanion [Carcopino, 1925] –; infine, la terza popolazione è quella degli Irpi-Sorani, i cui riti si svolgevano sul monte Soratte, a nord di Roma e che furono i fondatori della celebrazione dei Lupercalia, secondo Plutarco riti di purificazione. Si possono quindi definire gli uomini di queste popolazioni veri e propri ‘figli del lupo’ e non dev’essere casuale il fatto che, nei testi antichi di Strabone e Festo, gli Irpini, in quanto Sanniti, fossero definiti fieri e indomiti guerrieri. Diodoro Siculo, in Bibliotheca historica, infatti, li definisce “Il più bellicoso tra tutti i popoli d’Italia”.
Nel tracciare la storia e le origini delle popolazioni che si stabilirono nel Sannio, gli storici usano il termine Sabelli per designare i piccoli popoli dell’Italia centrale che parlavano dialetti del gruppo osco. Più rigorosamente, lo storico Salmon distingue queste popolazioni in due sottogruppi: ‘sabellici’ è usato in riferimento ai popoli che parlavano dialetti di tipo osco (Peligni, Vestini, Marrucini e Marsi), mentre ‘sabelli’ sta a indicare i popoli che parlavano, invece, l’osco vero e proprio (Sanniti, Sidicini, Campani, Lucani, Apuli, Bruzi, Mamertini). In ogni caso, il termine Sanniti indica sempre gli abitanti del Sannio, ovvero i Sabelli per eccellenza.

Zone di diffusione della lingua osca e popolazioni italiche che si stabilirono in queste regioni.

Zone di diffusione della lingua osca e popolazioni italiche che si stabilirono in queste regioni.

In Italia c’erano state probabilmente genti di lingua indoeuropea sin dall’età del rame, se non da prima, per cui le comunità che secoli più tardi parlavano dialetti del gruppo latino e osco-umbro potrebbero essere state il risultato di continue e ininterrotte infiltrazioni di gruppi di nomadi guerrieri e pastori di lingua indoeuropea che già nella preistoria si erano sovrapposti, certamente con la forza, alle popolazioni indigene fra cui si erano insediati [Salmon, 1995]. Quindi, si può desumere che le comunità che in tempi storici usavano lingue latine e osco-umbre potrebbero essere cresciute, essersi sviluppate ed aver acquisito identità tribali distinte nel corso dei secoli sullo stesso territorio italico. La loro evoluzione ebbe luogo proprio durante quei secoli in cui fiorirono le cosiddette ‘culture appenniniche’. Nel 600 a.C. esistevano ormai tribù separate e nel 500 a.C. il popolo storicamente noto come i ‘Sanniti’ deve essere stato chiaramente identificabile e aver avuto il controllo incontrastato del Sannio.
È possibile comprendere come si formarono le singole tribù sabelle grazie alla tradizione, tramandata dagli antichi scrittori, che individua un rituale religioso, il Ver Sacrum o Primavera Sacra, come spinta fondamentale per i popoli di lingua osca verso gli Appennini, con una discesa periodica alle pianure su entrambi i versanti. L’espansione sabellica si confermò anche in tempi storici, per cui si può definire certa questa spiegazione, data dagli storici antichi, circa la formazione delle popolazioni in sèguito a queste migrazioni. Il Ver Sacrum non era un’usanza limitata all’Italia sabella, ma tra le pagine di Livio si possono trovare riferimenti anche a un rito molto simile praticato dai Celti della Gallia Cisalpina e a un Ver Sacrum a cui i Romani fecero ricorso dopo la crisi dovuta all’invasione della penisola da parte di Annibale.

Aree occupate dai Sanniti e dalle popolazioni confinanti [Salmon, 1995].

Aree occupate dai Sanniti e dalle popolazioni confinanti [Salmon, 1995].


In particolare, il Ver Sacrum sabello fu descritto minuziosamente da Strabone e da altri autori. Per vincere una battaglia, allontanare un pericolo o porre fine a una calamità naturale quale una carestia o un’epidemia, i Sabelli sacrificavano a Mamerte (il Dio Marte presso gli Osci) tutto ciò che fosse nato la primavera successiva. Si sacrificavano agli Dei sempre i prodotti più belli della terra e quanto potesse risultare gradito a delle divinità. Questa pratica riguardava anche i bambini che, tuttavia, non venivano letteralmente immolati, ma lasciati crescere come sacrati, ovvero consacrati al Dio e destinati, una volta divenuti adulti, a lasciare la loro tribù e cercare nuovi boschi e pascoli sotto la guida di un animale sacro alla divinità. L’animale-guida era, per queste tribù, uno tra i seguenti: un toro, un lupo, un picchio, un orso, un cinghiale (o, forse, anche un cervo) e il gruppo poteva stabilirsi solo nel luogo indicato dall’animale. Non si sa se si facesse ricorso a un animale reale, oppure se gli abitanti marciassero sotto un vessillo sul quale era raffigurato l’animale totemico.

Kardiophylax appartenente a un guerriero sannita. Sono evidenti, nelle decorazioni, svastica, oche e canidi ̶ che potrebbero, con ogni probabilità, essere lupi ̶ entrambi animali sacri a Marte, o più precisamente a Mamerte, come veniva chiamato il Dio in lingua osca. Materiale del Museo Nazionale Preistorico-Etnografico Luigi Pigorini proveniente dal territorio dell’Aquila [Mangani, 2000].

Kardiophylax appartenente a un guerriero sannita. Sono evidenti, nelle decorazioni, svastica, oche e canidi -che potrebbero, con ogni probabilità, essere lupi- entrambi animali sacri a Marte, o più precisamente a Mamerte, come veniva chiamato il Dio in lingua osca. Materiale del Museo Nazionale Preistorico-Etnografico Luigi Pigorini proveniente dal territorio dell’Aquila [Mangani, 2000].


Ad ogni modo, non è ben chiaro se il motivo reale per celebrare il Ver Sacrum fosse la sovrappopolazione o piuttosto un rito che permettesse alla tribù di espandersi e conquistare altri territori con la protezione degli Dei. È anche possibile che questi spostamenti avvenissero come semplice ricerca del luogo più adatto e corrispondente alle caratteristiche fisiche e comunitarie di una determinata tribù.
La tradizione vuole che i primi sacrati a stabilirsi nel Sannio fossero stati condotti dal dux Cominius Castronius e da un toro a Bovianum, che divenne la culla della loro nazione. Il nome Bovianum, infatti, conserva il ricordo dell’animale, o meglio di un antico mercato di buoi.
Dai Sanniti, poi, con una nuova primavera sacra, nacque il popolo degli Irpini, il cui totem fu il lupo (hirpos), e che occuparono l’attuale Irpinia. Le caratteristiche di questa tribù si esprimevano appunto nelle abilità guerriere: non è da trascurare la particolare somiglianza tra i comportamenti propri alla specie Canis lupus e queste qualità della popolazione che guidava.
La principale fonte per ricostruire il Ver Sacrum degli Irpini è Strabone: “Viene il popolo degli Irpini, anch’essi di ceppo sannita. Ricevettero questo nome dal lupo che fece da guida alla loro migrazione: i Sanniti chiamano ‘hirpos’ il lupo. Confinano con i Lucani.” [Strabone V, 4, 12].
Per comprendere i motivi che spinsero le popolazioni antiche a designare il lupo come animale totemico occorre accennare a qualche aspetto dell’etologia di questa specie. Un branco di lupi tende a coincidere con un nucleo familiare, essendo generalmente costituito da una coppia dominante riproduttiva, dai giovani non ancora adulti e idonei alla dispersione, che restano con i genitori fino alla prima o seconda stagione invernale successiva alla loro nascita, e dai cuccioli nati da poco. I giovani, raggiunta la maturità sessuale, lasciano il territorio del branco in cerca di nuovi territori da colonizzare, ed è proprio in questa fase che sono particolarmente vulnerabili e soggetti al bracconaggio o a mortalità a causa dell’uomo.
Un lupo, specialmente quando è in dispersione, mette in atto una vera e propria conquista di un nuovo territorio, in cui formerà un nuovo branco e che difenderà proteggendo gelosamente i suoi confini, quindi marcando il territorio. Probabilmente nelle civiltà antiche erano presenti dei comportamenti per i quali uno storico moderno difficilmente può trovare una spiegazione esaustiva. Si può parlare, con ogni probabilità, di un riflesso di un mondo nell’altro: il mondo animale in quello umano, in una sorta di rituale corrispondenza divina.
Tornando ai racconti tradizionali, la tribù sabellica dei Pentri, guidata dal bove, si sarebbe fermata a nord del fiume Tifernus (presso l’odierno Matese), e avrebbe fondato la città di Bovianum, capitale del Sannio. Una seconda tribù, quella degli Irpini, guidata dal lupo, si sarebbe fermata nelle valli del Calore e del Sabato; una terza, guidata dal picchio (picus) si sarebbe stabilita, invece, a sud del Terminio nella regione detta dei Picentini; una quarta, quella dei Caudini, guidata dal cinghiale (aber, donde Abella, l’attuale Avella), si sarebbe stanziata tra i monti del Partenio e il Taburno, giungendo fin nella Conca avellana. Si presume che, nel tempo, si siano verificati diversi riti simili, con tribù meno numerose e importanti, delle quali sono rimaste ben poche tracce nei resoconti storici antichi, ma che sono ricordate nei cognomi, come il gentilicium osco Cervidius, presente nelle popolazioni sabelliche e che fa certamente supporre che anche il cervo fosse, quindi, un animale guida.

Ipotetico tragitto del Ver Sacrum delle popolazioni sabelliche verso i loro rispettivi territori d'insediamento [rielab. da ‘Il Sannio e i Sanniti’, Salmon]

Ipotetico tragitto del Ver Sacrum delle popolazioni sabelliche verso i loro rispettivi territori d’insediamento [rielab. da ‘Il Sannio e i Sanniti’, Salmon]


Si ricorda anche che la Licia, in Asia Minore, potrebbe essere definita il ‘paese dei lupi’, nome che deriva, secondo più autori [Carcopino, 1925; Grimal, 1982, Duchaussoy, 1972], da Latona, che vi sarebbe stata condotta dai lupi. Inoltre, anche il nome Licurgo, il principale legislatore di Sparta, significherebbe ‘colui che guida i lupi’ [Levalois, 1988]. Questo sottintende che alcune popolazioni greche s’identificavano coi lupi. Senza dubbio Licurgo era un inviato dei Dori, poiché il legislatore spartano visse nel secolo IX a.C., duecento anni dopo l’arrivo dei Dori, originari del nord della penisola balcanica, che fondarono la città di Sparta e anche quella di Argo, il cui emblema è il lupo e i cui abitanti amavano chiamarsi ‘lupi’.
Per il suo dominio sugli altri animali terrestri, il lupo è stato spesso associato ad armate, come emblema: lo si ritrova in testa alle legioni romane, a quelle dei Daci (in cui compariva un lupo col corpo di drago), sugli stendardi persiani o su quelli turchi. La tradizione scandinava, inoltre, menzionava manipoli di uomini molto temuti, chiamati bersekir, vale a dire ‘guerrieri rivestiti dalla pelle dell’orso’, o ulfhednar, cioè ‘uomini dalla pelle di lupo’. Questi guerrieri dovevano possedere le seguenti qualità: forza, abilità, resistenza, coraggio[Levalois, 1988].
In Irpinia una particolare leggenda appare significativa del radicamento di questo simbolo nelle sue origini: la storia di San Guglielmo da Vercelli, fondatore del Santuario di Montevergine, luogo sacro di culto che sorge nell’area in cui, originariamente, si trovava un tempio dedicato alla Dea Cibele. San Guglielmo, nato a Vercelli nel 1085 da nobile famiglia, divenuto monaco, decise di recarsi in Palestina, ma, lungo il cammino, decise di fermarsi in Irpinia. Ritiratosi in solitudine e in preghiera su Montevergine ebbe l’incarico dalla Madonna stessa di erigere una Chiesa in suo onore. Il monaco cominciò la fabbrica da solo, servendosi per il trasporto delle pietre, del legname e del materiale da costruzione di una vecchia asina che lo aveva trasportato in soma fin sopra il Monte. Appena terminati i lavori di scavo delle fondamenta, un lupo, uno dei tanti che popolavano l’Irpinia, si avventò sulla povera asina e la divorò. Guglielmo non si perse d’animo, cercò il lupo fra i faggi e gli parlò, dopo averlo rimproverato. L’animale selvatico, allora, a capo basso in segno di ravvedimento, si accucciò ai piedi del monaco, disposto ad accettare ogni punizione. San Guglielmo gli ordinò di eseguire tutti i lavori, prima sostenuti dalla sua asina [D’Amato, 1926]. Il lupo, divenuto mansueto, non può essere letto in altro modo che considerandolo come un simbolo del paganesimo, reso docile dal santo e, infine, sottomesso alla visione cristiana della natura.

San Gugliemo e il lupo. Santuario di Montevergine.

San Gugliemo e il lupo. Santuario di Montevergine.

In provincia di Avellino, dai racconti di molti anziani che hanno trascorso la loro intera esistenza in questi luoghi, i lupi emettevano liberamente i loro ululati lasciando che tutti gli abitanti dei paesi e della città li udissero. Era possibile, infatti, anche in strade del centro di Avellino, fino agli anni ’30, ascoltare i loro ululati e, talvolta, avere degli incontri molto ravvicinati con esemplari di lupi che percorrevano queste terre, non ancora invase e devastate dalla speculazione edilizia degli anni ’60 e, soprattutto, degli anni ’80.

Considerando il simbolismo del lupo nelle popolazioni europee, la sua associazione con la sacralità nel territorio irpino e la sua funzione di guida per le popolazioni italiche, si può asserire che questa figura appartenga sia alla luce dell’età dell’oro, sia alle tenebre dell’età della decadenza. È simbolo di fecondità nella prima era, divenendo funesto, invece, nella seconda. Nell’alchimia e nell’astrologia appare connesso sia a Saturno sia a Marte. Raffigura anche il mondo, in una fase ascendente, fertile e luminosa, ma anche in una discendente, in cui, nella sua dissoluzione, guida l’uomo verso l’oscurità. Il lupo simboleggia, pertanto, anche l’uomo, perché come lui può essere artefice e distruttore e, per questo motivo, è di facile comprensione come possa essere diventato per le popolazioni antiche sia una guida sia una forma naturale nella quale rispecchiarsi. Il mondo è contrassegnato dal simbolo del lupo, dalla sua forza misteriosa e dirompente, che può segnare la fine e l’inizio, la morte, ma anche la rinascita e la luce di una nuova era.
In Italia il lupo è scomparso dalle Alpi intorno agli anni ’20 e dalla Sicilia intorno agli anni ’40. Tra le cause che ne hanno determinata la diminuzione, culminata negli anni ’70, le più importanti sono la caccia, la progressiva riduzione delle prede, e la frammentazione territoriale dovuta all’azione dell’uomo. Sembra verosimile l’ipotesi secondo la quale il lupo, intorno agli anni ’70, abbia toccato un minimo storico di circa 200÷300 individui, presenti in popolazioni solo in parte isolate tra loro e relegate nelle zone più impervie e inaccessibili dell’Appennino, dalla Calabria fino all’Appennino tosco-romagnolo.
Nonostante le iniziative messe in atto a favore del lupo, la persecuzione diretta da parte dell’uomo costituisce ancora oggi il suo principale fattore di mortalità in Italia e in tutto il mondo. È indicativo il fatto che una specie così viva nel nostro ricordo sia attualmente in costante pericolo. Anche in questo, probabilmente, il lupo continua ad essere un simbolo per la nostra popolazione, ma al tempo stesso, ci pone dinanzi a uno specchio che lascia vedere una pericolosa deviazione imboccata dalla mentalità moderna. Se uno dei più importanti animali guida è minacciato dalla nostra specie, non si può non pensare che la nostra natura più profonda abbia subìto delle modificazioni tanto radicali da provocare in noi una trasfigurazione che non consenta più all’uomo di riconoscersi nel suo ambiente originario e nella fauna con la quale, prima, si era stabilita un’unione inscindibile, ratificata dagli Dei e onorata, in ogni azione, rito e decisione dagli uomini. Il lupo continua a vivere, più nascosto, quasi infastidito dall’uomo con il quale prima aveva stabilito un patto divino, e chissà quando, e in che forma, deciderà di tornare a manifestarsi e a guidarci, infondendo nei nostri animi l’atavico coraggio guerriero oppure deciderà di abbandonare la nostra stirpe ai destini più oscuri, privandoci della sua luce. La decisione forse, a questo punto, non spetta a lui, ma a noi stessi.

Bibliografia

  • Antonio D’Amato, Folklore irpino, estr. da: Il folklore italiano, Catania: Libr. Tirelli di F. Guaitolini, 1926.
  • Julius Evola, Simboli della tradizione occidentale, Carmagnola (TO), Arktos, 1978.
  • René Guénon, Simboli della Scienza Sacra, Milano, Adelphi Edizioni, 1975 – 1° edizione, Parigi, Editions Gallimard, 1962.
  • Christophe Levalois, Il Simbolismo del Lupo, Carmagnola (TO), Arktos, 1989.
  • Elisabetta Mangani, I materiali del Museo Nazionale Preistorico-Etnografico Luigi Pigorini provenienti dal territorio dell’Aquila, in Studi sull’Italia dei Sanniti, a cura della Soprintendenza Archeologica di Roma, Electa, 2000.
  • Edward T. Salmon, Il Sannio e i Sanniti, Torino, Einaudi, 1995.
  • Strabone, Geografia, V.
  • Tagliamonte Gianluca, I Sanniti. Caudini, Irpini, Pentri, Carricini, Frentani, Milano, Longanesi, 1997.

 

Immagini

  • in testata: Romolo e Remo allattati dalla lupa e scoperti dal pastore Faustolo (acquaforte di Bartolomeo Pinelli, in Istoria Romana, Roma: Giovanni Scudellari, 1816).
  • in evidenza: coppia di lupi sul greto di un torrente lungo l’Appennino; la femmina è in stato di gravidanza (foto di Alberto Tovoli, maggio 2015).



I guardiani della notte: il gufo e la civetta

In molte culture tradizionali, da Oriente a Occidente, l’essere alato ha da sempre raccontato un legame con il divino.
Ogni parte anatomica degli uccelli, ogni caratteristica legata al verso ha evocato simboli celesti. In particolar modo le ali rappresentano nella tradizione cristiana la spiritualizzazione, la protezione del creato, il volo verso l’alto; il verso, invece, il linguaggio che «stabilisce la comunicazione con gli stati superiori dell’essere» [Guenon 1975].
Ciò nonostante il verso del gufo e della civetta, come altri uccelli notturni, nelle tradizioni popolari occidentali ha ispirato simboli negativi, al punto da demonizzarli.
Come tutti gli animali totemici, la civetta e il gufo possono essere il simbolo di una singola persona oppure di intere popolazioni. In alcune tradizioni l’associazione con il proprio totem avviene durante una cerimonia d’iniziazione che lega lo spirito dell’uomo allo spirito dell’animale, tanto da assumerne gli aspetti e gli atteggiamenti.
Gli strigidi, famiglia a cui appartengono il gufo e la civetta, prendono il loro nome dal latino strix, da cui è derivato in italiano il nome strega. Infatti si narra che le streghe assumessero dapprima, in epoca romana, fattezze di uccelli notturni con testa grossa, il becco e gli artigli da rapace per una magia; successivamente, nel Medioevo, assunsero fattezze umane di donne brutte che partecipavano ai sabba per unirsi ai demoni.

Selvaggio mio, per queste oscure grottole
Filomena né Progne vi si vedono;
ma meste strigi et importune nottole.Sannazaro Arcadia

La fama di questi rapaci notturni è cambiata nel corso della storia in base alle popolazioni. Noi occidentali la civetta l’abbiamo considerata compagna delle streghe, ma per quanto riguarda i rapaci notturni e le tradizioni a essi legate c’è un po’ di confusione, forse dovuta alla somiglianza che queste specie hanno tra loro e il mancato riconoscimento negli avvistamenti notturni. Entrambe le specie hanno la testa un po’ più grande rispetto al resto del corpo, occhi molto gradi e dal colore molto vivace, becco adunco, zampe tipiche dei rapaci e, per i non esperti, un verso poco distinguibile. Proprio per questo hanno a volte assunto il termine generico di nottola oppure, in altri casi, il termine gufo e civetta sono stati utilizzati indistintamente.
Gli egizi associavano la figura della civetta alla morte, utilizzando la sua figura nell’alfabeto geroglifico per rappresentare l’anima che abbandonava il corpo.

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Moneta greca chiamata tetradramma o civetta

 

Nella mitologia greca, invece, la civetta è considerata simbolo della sapienza, dell’intelligenza razionale capace di discernere laddove altri scorgono solo ombre e oscurità tanto che Atena, dea della saggezza, è rappresentata spesso con una civetta posata sul palmo di una mano. Le monete ateniesi chiamate civette avevano raffigurato su un lato la dea Atena, sull’altra faccia appunto la civetta. Inoltre il suo nome greco è glàux, “la rilucente” e per questo paragonata alla luna che brilla di luce riflessa. Da allora, la presenza nella notte della civetta è associata al vegliare del saggio e il suo verso stridente non rappresenta più un presagio funesto ma l’avvertimento all’uomo della brevità della vita.

Rivista Gianbattista Basile

In epoca romana la civetta era considerata portatrice di malaugurio e secondo le leggende si nutriva di sangue e carne umana. Nella letteratura latina si racconta che donne esperte di magia si trasformassero anche in gufi.
Così come in altre superstizioni popolari, anche a Napoli quando si sentiva stridere una civetta si diceva: “È buono addo’ canta e malamente addo’ tremete (guarda)” oppure “Biato a do’ posa e maro’ (guai) a do’ canta”. Il suo stridere era, infatti, associato ai lamenti delle anime dei morti così come riportato anche da vari autori della letteratura classica. Queste credenze popolari hanno fatto sí che la civetta fosse la specie più perseguitata per la sua fama di uccello del malaugurio.

Altra espressione rimasta nella tradizione napoletana è: “Pare’ ’a Coccovaja ’e Puorto” (letteralmente: sembrare la civetta del porto; in senso traslato: donne particolarmente brutte e sgraziate). Questo detto prende origine dalla famosa Fontana degli Incanti o della Cuccuvaja che fu costruita nella metà del XVI sec. per volere di don Pedro di Toledo e all’epoca situata in Piazza di Porto o dell’Olmo (attuale Piazza Bovio), antistante la zona del porto. Ciò che resta di questa fontana è oggi in Piazza Salvatore di Giacomo a Posillipo, ma le sue condizioni sono indegne. È chiamata Fontana della Cuccuvaja perché vi era scolpita la statua di una civetta e Fontana degli Incanti poiché una leggenda narra che una strega utilizzò l’acqua di quella fontana per preparare una pozione che avrebbe fatto innamorare una giovane popolana di un nobile spagnolo; altri raccontano invece che i mercanti e i venditori “incantavano” le proprie merci.
La più antica testimonianza del legame tra il gufo e l’uomo risale all’epoca preistorica nella grotta di Chauvet dove tra le incisioni di vari animali c’è anche quella dei gufi.
Il gufo è riconosciuto per antonomasia il rapace che vede nell’oscurità e diventa attivo di notte quando buona parte dei viventi dormono. Così come la civetta, anche il gufo, abile cacciatore nella notte, ha un volo molto silenzioso ma il suo verso è capace di squarciare la quiete notturna. Nella tradizione magica, è simbolo di chiaroveggenza, saggezza, conoscenza, consapevolezza ed è elevato a simbolo di colui che vede oltre il velo dell’oscurità. Associato a maghi e indovini, per la sua duplice natura il suo potere è utilizzabile sia per scopi positivi sia negativi.
In epoca romana le immagini dei gufi erano usate per combattere e respingere il malocchio.
In varie culture incarna la ricerca spirituale, la meditazione sulla morte e il silenzio del mistero del mondo. Nella cultura sciamana il totem del gufo rappresenta la profondità della realtà psichica, la guida per ritrovare la luce della saggezza ed era impiegato anche nella ruota della medicina.

et uncta turpis ova ranae sanguine, plumamque nocturnae strigis Orazio Epodi V

Per la sua ambivalenza simbolica, il gufo ha anche evocato l’emblema del traditore che prepara nell’ombra oscuri progetti. Durante il periodo del Rinascimento l’emblema del genio cattivo era raffigurato con un gufo in mano.
Oggi il gufo e la civetta sono utilizzati come amuleti che aiutano a riconoscere il cammino, interpretare messaggi apparentemente incomprensibili e proteggere dall’eccessivo attaccamento ai beni materiali.

 

Bibliografia

  • Alfredo Cattabiani, Volario, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 2010.
  • Alfredo Cattabiani, Calendario, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 2014.
  • Antonio Colombo, La fontana degli incanti, «Napoli nobilissima», VII (1906), 8 pp. 113-115.
  • René Guénon, Simboli della Scienza sacra, Milano, Adelphi, 1975.
  • Jacopo Sannazaro, Arcadia, Venezia, Giovan Andrea Valvassori, 1559.

 

Immagini

  • in testata: foto di Abariltur.
  • in evidenza: Athene noctua (foto di Trebol-a – https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Athene_noctua_(portrait).jpg).